Coco: la recensione di salvatore89
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Coco: la recensione di salvatore89

Coco: la recensione di salvatore89

Miguel ha dodici anni e la musica nel sangue, ma nella sua famiglia ogni nota è bandita, da quando l’anziana bisnonna Coco fu lasciata dal proprio babbo per seguire carriera e successo. Deciso a partecipare a un concorso musicale nel Día de los muertos, ossia il giorno dei morti, privato della sua chitarra, Miguel la ruba dalla cappella proprio del suo trisavolo negato, il cantante Ernesto de la Cruz, gloria nazionale. Inaspettatamente, l’azione lo scaraventerà nel regno dei morti…
Resistendo sotto le intemperie di una produzione piena di sequel, il regista Lee Unkrich ha sostenuto il suo Coco fin dalla sua nascita, come idea, nel 2011, all’indomani del suo Toy Story 3. La riuscita del lungometraggio sarebbe evidente per i pregi che andremo ad analizzare, ma acquista un valore doppio se si tiene a mente ciò che è accaduto in questi sei anni: la nefasta registrazione del primo titolo “Día de los muertos” con la conseguente sollevazione delle comunità latine contro la Disney; le accuse preventive di plagio del Libro della vita, film del 2014 di Jorge Gutiérrez (sostenitore però di Coco), il quale affrontava anch’esso il tema della memoria; la poi cancellata distribuzione in sala in compagnia di una lunga featurette di Frozen, sospetta strategia di sostegno di un progetto originale e rischioso pixariano con il marketing Disney doc. Il rischio più grande era derubricare Coco a progetto secondario dal destino impervio, come è accaduto al travagliato Il viaggio di Arlo.
Immaginate che tutto ciò che ho appena scritto abbia un peso. Immaginate adesso quel peso che si solleva molto rapidamente, nel giro di una decina di minuti dall’inizio del film. Come nella migliore tradizione pixariana, quella per intenderci di Inside Out e Up, Coco ci scaglia in un racconto emotivamente trascinante, alimentandosi allo stesso tempo di temi complessi, che entrano ed escono dalla sceneggiatura con la massima naturalezza (ricorda Il Libro della Vita solo in superficie, la profondità emozionale imparagonabile). Ossessione del regista Damien Chazelle in Whiplash e La La Land, il bivio tra perseguimento della vocazione personale e affetti si sviluppa con maggiore ottimismo ma non minore conflitto: il tradimento di chi ci vuol bene non è in Coco meno grave del tradimento di se stessi. Il percorso di Miguel può ricordare quello di Riley in Inside Out: non viene mai messo in dubbio un ordine superiore che concilia la delusione con la gioia, ma è una magica serendipity che si attiva solo al faticoso raggiungimento della nostra maturità, non importa quanto il tragitto sia traumatico. L’importanza rivestita dai defunti nella storia farebbe pensare a un’elaborazione del lutto simile a quella di Up, però Unkrich e i suoi hanno posto ben due generazioni tra Miguel e gli scatenati scheletri che incontra nel coloratissimo aldilà, suggerendo di volersi spingere oltre. Non si chiede di accettare l’idea della morte, quanto di abbattere quel labile confine tra esistenza e assoluto che è dentro ciascun essere umano, con l’aiuto del ricordo, della memoria e di un legame con la tradizione, privata e collettiva. Non a caso la musica, uno degli arieti più spontanei per tali barriere, non ha mai avuto un’importanza tale in un film Pixar, con colonna sonora di Michael Giacchino e canzoni originali, tra cui una molto funzionale alla vicenda. Grazie alla collaborazione del giovane story artist Adrian Molina, co-regista e co-sceneggiatore di origini messicane, Unkrich riesce a rendere la cornice, ulteriore sostanza del discorso: il folklore del Día de los Muertos e della cultura messicana sblocca eventuali resistenze culturali cattoliche di stampo europeo, più pudiche e contenute, trattando una materia delicata in una chiave trasversale che è fantasia, colore, simbolo, vitalità, risate e tenerezza. Concepito molto prima che Donald Trump si candidasse, Coco costruisce un ponte di comunanza tra culture attraverso il mistero del tempo che passa, vero devastante trait d’union di tante storie Pixar. A un occhio attento, Coco si distingue ugualmente per la sua realizzazione tecnica, per la sua capacità sottile, magistrale, di conciliare la vitalità cartoon e caricaturale dell’ambiente e dei personaggi con uno stile di ripresa e montaggio che guarda al cinema dal vero: una camera mobile e inquieta che insegue i personaggi e respira, e una direzione della fotografia realistica in grado di coinvolgere a livello quasi subliminale. Nella sostanza e nella forma, nel cuore e nella maniacale attenzione al dettaglio, Coco sa perciò ancora stupire nel 2017, quando dalla rivoluzione di Toy Story sono trascorsi 22 anni. Un ultimo aspetto da evidenziare è il seguente: ossia l’influenza dello stile di Miyazaki nello stile Pixar. Da tempo è noto come tra John Lasseter, dunque la Pixar, e il maestro dell’animazione giapponese Hayao Miyazaki corresse buon sangue. Reciproci ammiratori hanno sviluppato una proficua e sincera amicizia. E se Totoro compariva in un “cameo” in Toy Story 3 – La grande fuga e in Monsters & Co., il museo Gibli ospitò nel 2004 proprio una mostra dedicata alla casa di produzione americana. Il legame tra questi due creatori di sogni è viscerale e profondo e tra i loro film ci sono splendide corrispondenze, vere e proprie affinità elettive. Accadeva in Up, forse il film più miyazakiano della Pixar, che condivideva con le opere del maestro giapponese la dilatazione della narrazione e la tematica della vecchiaia. E in Coco, diciannovesimo lungometraggio targato Pixar, queste corrispondenze vengono nuovamente e ulteriormente esaltate: la riflessione sulla morte e sulla famiglia, il ragionamento sull’oblio sembrano provenire direttamente dall’universo immaginifico di Miyazaki. Ma al di là di un’assonanza in termini tematici, è dal punto di vista visivo che il film ricorda più da vicino i capolavori dell’animatore nipponico, e tra i tanti, in particolare La città incantata. Un esempio su tutti riguarda la scena in cui il giovane protagonista Miguel scopre di trovarsi nel regno dei morti: è simile, nello svolgimento e nelle scelte cromatiche, a quella in cui la piccola Chihiro de La città incantata si ritrovava circondata dagli spiriti e gridava di fronte alla mostruosa trasformazione dei genitori in maiali. È una gioia per lo spettatore scoprire tali confluenze, in uno dei film più maturi, ricchi e politici della storia della Pixar. Per concludere non si può non parlare dei kodama, spiriti che abitano gli alberi in Principessa Mononoke, o degli alebrije, bizzarri spiritelli multicolore messicani del regno dei morti di Coco. Perché è proprio l’ecosistema fantastico, inteso nel suo inarrestabile dinamismo vitale, ad accomunare Ghibli e Pixar. Oggetti, animali, esseri magici, alberi e fiori. Nelle opere di entrambe le case di produzione è come se tutto ciò che nella realtà è inerte o muto volesse palesarsi, muoversi, esprimere i propri sentimenti. Semplicemente, vivere.

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