La vita Adonis Creed (Michael B. Jordan) è arrivata a un punto di svolta. Il mestiere di pugile lo assorbe e lo logora, ma l’adrenalina e il desiderio di mantenere inalterato il suo status di campione dei pesi massimi non accennano a scemare. Anche l’amore con la fidanzata Bianca (Tessa Thompson) è ormai maturo per un grande passo, ma la sfida più grande è ancora una volta da consumare sul ring: Viktor, il figlio del leggendario Ivan Drago (Dolph Lundgren), tragicamente legato al passato della sua famiglia, è pronto infatti a dichiarargli guerra…
Creed II riprende le fila del discorso da dove eravamo rimasti, ovvero da quel Creed – Nato per combattere che nel 2015 aveva rilanciato, in versione malinconica e ammaccata, il mito del Rocky Balboa di Sylvester Stallone spostandolo in avanti, in chiave generazionale, attraverso il rampante figlio di Apollo Creed. Un personaggio, quello di Sly, che dopo quest’ultima apparizione non tornerà più, per ammissione diretta del suo interprete, e che in virtù di quest’uscita di scena si carica di una dimensione ancora più vibrante e commossa di quanto non fatto, naturalmente con una grande dose di ironia e testosterone a fare da contrappeso, nel film precedente.
Sono passati tre anni non solo dall’opera di Ryan Coogler ma anche nell’arco narrativo delle vicende di Adonis Creed, un personaggio che continua a essere un blocco bidimensionale e monolitico, un sacco da boxe che riceve tantissimi colpi e contraccolpi dall’esistenza e dall’eredità non indifferente che ha ricevuto in sorte. La rudezza della sua psicologia serve, anche in questo caso, a spianare la strada ai veri protagonisti, che in Creed II sono Ivan e Viktor Drago: un padre e un figlio che hanno deluso prima di tutto se stessi, a caccia di una rivincita che li renda guerrieri ancor prima che uomini migliori (la loro fregatura, senza dubbio, sta nel non sapere invertire questo paradigma).
Ancora, una volta, però, il vero punto della questione non sono i ganci destri sferrati dai guantoni e nemmeno la verosimiglianza delle sfide fisiche (credere a Michael B. Jordan come peso massimo continua a essere difficile), ma l’umanità tutta d’un pezzo nascosta nelle ombre che si annidano dietro ogni scelta sportiva e qualsivoglia mossa, tanto sul ring quanto in privato. Creed II in tal senso riduce, in maniera ancora più evidente, il grumo di una storia portata avanti per otto film complessivi a ciò per cui si è davvero disposti a combattere, alle radici profonde delle motivazioni per cui vale la pena continuare a battersi.
Questo sequel dello spin-off che aveva regalato al grande Sly addirittura una nomination all’Oscar, in cui Ryan Coogler ha passato il testimone della regia al giovane e assai in palla Steven Caple jr., guarda com’è facile prevedere a Rocky IV, proponendone un remake sotto mentite spoglie tanto quanto il primo Creed – Nato per combattere lo era del primissimo Rocky. Un approccio che porta con sé pro e contro e sul quale si potrebbe discutere a lungo, ma è indubbio che nel calcolo millimetrico e nostalgico della sceneggiatura, piena zeppa di strizzate d’occhio al passato, trovi spazio un’idea di sentimento tanto esaltante quanto tambureggiante e piena di chiaroscuri.
In Creed II Sylvester Stallone – ed è il nodo decisivo – ha infatti prestato servizio anche come sceneggiatore, regalando al leggendario Rocky un’uscita di scena cadenzata e crepuscolare, carica di un pathos che sfocia di gran carriera nel romanticismo da film generazionale e sulle generazioni, da testamento esistenziale. In linea con un prodotto che cerca, coi suoi modi e nei suoi tempi (serratissimi e convulsi), di parlare di padri e di figli con un gioco di contrasti dal sapore shakespeariano.
Potrebbe sembrare una forzatura, ma lo è solo in parte. Perché il ring è ed è sempre stato, nella saga di Rocky, il teatro della vita, e il primo ingresso in scena di Balboa dice già tutto: dilatato e a passo lento, come se dal backstage nel quale si è relegato guadagnasse, inesorabilmente, il proscenio di una tragedia greca.
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