“Dallas Buyers Club” (id., 2013) è il settimo lungometraggio del regista di Montréal Jean-Marc Vallée.
E’ un colpo allo stomaco, duro, un ko da vomito e uno sguardo da brividi. Fino alla fine della cruda esistenza di un uomo e ogni sua cellula che non aspira alla morte.
La pellicola sulla vera storia di Ron Woodroof al momento della contrazione del virus HIV, lascia il segno allo
spettatore anche più avvezzo a simili argomenti e all’immersione totale dentro il baratro di ospedali, medicinali, siringhe, droghe e alcool. Un film che disturba nel profondo senza sconti e senza giri di piacere e che scruta da dentro il corpo martoriato (e presto quello di ‘amici’ di corsia) del semplice elettricista texano che mai e poi mai pensa di morire il giorno dopo. Alla visita in un ospedale il dottor Sevard gli dà la brutta notizia che oramai i suoi anticorpi sono ridotti al minimo e che l’Aids gli ha lasciato solamente trenta giorni di vita. Ron non crede alle sue parole, lui che non ha mai toccato un uomo (‘io frocio’?) e che si ritiene vero donnaiolo (‘figa-dipendente’). Lascia tutti in malo modo ma i suoi amici appena sanno tutto lo trattano da ‘diverso’ e il suo destino cambia bruscamente (troppo bruscamente).
Il film in una finzione documentaristica (segue i giorni contandoli, con didascalie e luoghi) scorre nelle vene, nella pelle incavata e nei buchi di aghi e altro del giovane ‘scheletrico’ dal 1986 fino alla sua morte (settembre 1992). Il corso dei giorni è uno scorrere inesorabile e Roon vuole vivere a lungo e per farlo deve prendere particolari medicinali che negli Stati Uniti sono illegali. E così si dà da fare…passa il confine Messicano più volte, trasporta scatole e scatole di pillole, si traveste da sacerdote, si basa su leggi obsolete e indica sempre il suo scopo (di vero aiuto oltre che business). E crea ‘il club della vendita diretta’ (con tessera da quattrocento dollari) cioè il ‘buyers club’ (1988) senza sconti per nessuno con l’amico/a Rayon. La ‘droga’ antivirale (PVP) è il tocco magico per tutti i malati terminali e gli omosessuali sbattuti fuori da ogni confine di società puritana, per bene e chiaramente ‘omofoba’. Ron si schiera con loro (certo con guadagni) ma rischia di suo, redime ogni gesto e alterco contro e fa rivivere il senso della dignità dell’uomo. Il club ha dei problemi per questioni legali e Rayon va a cercare soldi da suo padre che non vede da tanto. “Dio aiutami”, “Dio ti ha già aiutato…ho l’Aids” risponde al padre. Ma le lacrime servono a poco. La morte incombe inesorabilmente per i corpi sunti, fantasmi e derelitti. Tutto mentre Ron mastica amaro ogni cosa che vede e non sente più: il suo corpo si annienta dentro il fango orribile della società texana (con cappello e tori da cavalcare). La lotta è contro i veri interessi farmaceutici e il destino dell’AZT è segnato. Non sono sufficienti dei dolcetti ci vogliono vere pillole.
“Sento di essere un uomo”: l’affermazione salvifica e meritoria di Ron alla dottoressa Eve (che si schiera al suo fianco) ridisegna il destino di generazioni perse e di persone che erano abbandonati a loro stessi. La forza del coraggio, la reazione alla morte, il segno di una luce: ecco ciò che Ron tenta quotidianamente col suo fare barcollante, rozzo, con guance spente, occhi silenti nascosti da lenti scure der dare dignità al suo vivere sfinito. Una corsa dentro i cuori di centinaia di individui accomunati da una sconfitta corporea e (forse) da una vittoria futura.
La prova di Matthew McConaughey è dirompente nel senso letterale del termine: completamente addentro al vero corpo di Ron e delle sue sofferenze. Un fisico che si è lasciato molti chili per mescolarsi, scandire e sancire la vita derelitta del personaggio vero morto di Aids agli inizi degli anni novanta. Una prova altamente meritoria e di sincerità maiuscola. Senza giri di parole un segno di partecipazione vera al destino di Woodroof e alla vita sociale del Texas negli anni ottanta mostrando tormento e dolore con una dignità quasi (in)verosimile e girando il suo volto a noi con una crudezza da far scandire il nostro tempo di vera partecipazione emotiva. Una recitazione-documentaristica assolutamente notevole: prosaicamente (nei modi e nei gesti) poetica (nelle affettuosità fuori dal suo mondo). Alcuni momenti restano veramente indimenticabili con un uso di un linguaggio litigioso, versato, pastoso e virulento m mai abbassato alla faciloneria e battuta di ornamento. Non c’è mai il gioco delle parole usate ma soltanto la consapevolezza del loro uso forte e maiuscolo. Il pianto solitario, la pistola da prendere, il rallentare lo sguardo, il camminare da dietro, lo spiraglio del suo corpo, il boccheggiare e l’uso delle mani sono tanti di quegli aspetti che alzano il livello di un film molto particolare e di una vita da ‘ascoltare’ quella di Ron.
Matthew McConaughey ha recentemente dichiarato che “l’Oscar non è l’obiettivo finale, ma è un risultato che conta. …ora non posso fare nulla, se non girare il mondo per parlare del film, potrei farlo per anni”. Il suo perdere oltre venti chili per un film voluto fortissimamente e che nessuno voleva fare (rifiutato volte su volte) riempie la vita di questo attore texano che ha già girato decine di pellicole e che pare essere uscito alla grande in questi ultimi anni (girando film con Friedkin e Scorsese e Nolan). Un attore che ha da dire ancora molto e che ha detto già il suo in questo ruolo che vale una carriera. Il corpo di Ron e i suoi occhiali da maschera rimarranno a noi nell’immagine di un film da consigliare.
Da rimarcare anche le prove di Jared Leto (Rayon) e Jennifer Garner (dr. Eve) come del cast nel suo assecondare ogni momento del film.Di livello la fotografia spenta, polverosa e offuscata nei colori vivi di Yyes Bélanger. La regia di Jean-Marc Vallée è partecipativa e quanto mai funzionale.
Voto: 7½ /10.