Diaz - Don't clean up this blood: la recensione di Irene Coluccia
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Diaz – Don’t clean up this blood: la recensione di Irene Coluccia

Diaz – Don’t clean up this blood: la recensione di Irene Coluccia

Il dolore. Questa è la prima parola che mi veniva alla mente guardando scorrere sullo schermo le immagini di “Diaz – Don’t clen up this blood”, ultima fatica dell’ottimo Daniele Vicari. “Diaz” è a tutti gli effetti un film doloroso, che non risparmia nessuno, non tanto nelle scene crude da “macelleria messicana” quanto per gli sguardi delle vittime. Alma, Marco, un anziano sindacalista che si ritrova per puro caso a dormire nella scuola. Sguardi di puro terrore, momenti di pesante angoscia nella scena in cui i celerini salgono di piano in piano, distruggendo chiunque si trovino davanti. Un lavoro curato nei minimi dettagli, a partire dal taglio per metà documentaristico, per metà leggermente sgranato che mi ha ricordato quasi gli “incubi” dell’Aronofsky di “Pi greco – Il teorema del delirio”. Un’attenzione particolare, mai forzatamente politica, ma una passione per la Verità, una Verità che arriva agli spettatori come colpi di manganello. Una Verità sezionata, vengono raccontati fatti quasi ignorati dall’opinione pubblica, come le molotov false messe scenograficamente sopra uno striscione, un manifestante arrestato che venne obbligato a stare a quattro zampe ed abbaiare come un cane, la coltellata simulata ai danni di un poliziotto della Folgore. Il confronto con il docu-film di Carlo A. Bachschmidt è spontaneo, ma a mio parere non si tratta di un paragone quanto di un arricchimento reciproco: “Black Block” è un documentario al 100%, mentre la drammatizzazione di Vicari permette allo spettatore di “entrare” ancor meglio nei fatti, esserne assorbito. Merito alla Diaz di Vicari per la distinzione precisa tra Black Block e manifestanti e per la caratterizzazione della classe dirigente, fredda e crudele come macellai per l’appunto. Alcune scene sono delle vere percosse al cuore, l’umiliazione provata da Alma, nuda davanti i crudeli celerini nella caserma di Voghera, circo di abusi incredibili è la nostra umiliazione. Il dolore di Marco/Elio Germano è reale, lo sentiamo sulla nostra pelle e ci spinge a documentarci su un capitolo vergognoso della nostra storia, spesso inflazionato, ignorato, modificato. Grande sorpresa nel vedere il target del pubblico in sala: se durante le proiezioni degli altri film di Vicari, gli spettatori erano persone dai 20 ai 50 anni prevalentemente di sinistra, la sala di “Diaz” era composta da adolescenti, genitori, anziani di tutte le età e appartenenza sociale. Un segno? Una speranza? Lo speriamo tutti, ma ciò che realmente lascia la visione di questo film è la responsabilità. Una nuova responsabilità di conoscenza e un peso. Un peso che come già detto non risparmia nessuno. Vicari ti costringe con la forza a chiederti “E se ci fossi stato io? E se quella ragazza con la testa spaccata fosse stata mia figlia, mia sorella, la mia ragazza?”. Tutto questo in una cornice magistrale di vero cinema di rivoluzione.

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