Parlando di The Last Stand, il tanto atteso ritorno di Schwarzy al cinema action, avevamo aperto con un elenco impressionante, che per completezza vi riportiamo qui, lettera per lettera: «Tom Cruise. Mel Gibson. Sylvester Stallone. Liam Neeson. Bruce Willis. Ancora Sly, with a little help from his friends. E ora, per completare la foto di classe, Arnold Schwarzenegger». Se ora lo ricicliamo è perché la nostalgia è una delle poche (forse l’unica) chiavi di lettura che consentono di salvare davvero Die Hard – Un buon giorno per morire, quinto capitolo di una saga cominciata 25 anni fa con il capolavoro firmato John McTiernan e che si ritrova oggi a barcamenarsi tra le rughe del suo protagonista e l’insipienza del suo nuovo timoniere, il John Moore dell’orrido remake di The Omen.
Poche righe e, siamo sicuri, siete già tra il depresso e l’arrabbiato. «Ma come, non è possibile che abbiano fatto un Die Hard brutto!». Vero: e infatti questo nuovo episodio non è quello che si definisce un film sbagliato. Più ancora del capitolo scorso, che già si divertiva a giocare con i cliché del genere e con la figura ormai mitologica di John McClane, Un buon giorno per morire è una pellicola pienamente consapevole di quello che vuole essere; questo, oppure è il più grande pesce d’aprile in anticipo di sempre. A seconda dell’angolazione da cui lo si guarda, Die Hard 5 è alternativamente un filmaccio, un filmetto o un filmone: noi vi spieghiamo perché, poi scegliete voi quale punto di vista sposare, e quindi cosa fare il 14 febbraio quando il film uscirà al cinema.
Opzione a): Die Hard 5 è un filmaccio. Skip Woods, già sceneggiatore tra gli altri del recente A-Team, si dimostra una delle penne più infelici di Hollywood, imbastendo una storia presa di peso dagli anni Ottanta pre-scioglimento dell’URSS e infarcita di razzismo d’accatto e machismo reaganiano. Siamo a Mosca, dove John McClane Jr. detto Jack (Jai Courtney, ci torniamo dopo), il figlio di John McClane riesumato dallo script del primo Die Hard, impiega cinque-minuti-cinque per finire in galera per omicidio. Siccome McClane senior sta ai casini come le api stanno ai fiori profumati, passano altri cinque minuti e Bruce Willis fa la sua gloriosa comparsa su schermo; due minuti dopo, il figlio gli punta una pistola alla tempia. È l’inizio di un luna park che comprende, tra le altre cose: la mafia russa, l’esplosione del reattore di Chernobyl, i ceceni e soprattutto un MacGuffin grosso come una casa, un file segretissimo in grado di rovesciare l’impero di un miliardario malavitoso (Sergei Kolesnikov) e di cui solo il delinquente pentito Komarov (Sebastian Koch) conosce l’ubicazione. Inutile, a questo punto, specificare che padre e figlio – obtorto collo all’inizio, poi il loro rapporto si ricuce, morto dopo morto – faranno squadra per recuperare il file, salvare la vita di Komarov, sconfiggere il mafioso. Come questo accada è un altro discorso, ma le parole d’ordine sono due: “confusione” (difficile star dietro a tutti i plot twist, soprattutto nel pasticciatissimo incipit) e “improbabilità” (un solo esempio: una traversata in macchina da Mosca a Pripyat, 1.000 km circa, in un battito di ciglia).
Opzione b): Die Hard 5 è un filmetto. Il suo più grosso difetto non è tanto quello di provarci, quanto di sbagliare spesso obiettivo. Il quarto capitolo ci aveva fatto definitivamente accettare la trasformazione di McClane da “everyday hero” a supereroe quasi immortale, e Un buon giorno per morire recupera questo approccio, tentando però di aggiungere umanità e (gasp!) fragilità al personaggio di Bruce Willis. Il figlio Jack è forse il suo più grande rimpianto: vorrebbe avere con lui un rapporto vero ma il peso del suo essere stato un pessimo genitore è troppo, tanto che non riesce neanche a dirgli «ti voglio bene». Da parte sua, Jai Courtney regge la parte con discreta sicurezza, gelido e impassibile anche di fronte alle debolezze del padre, ma il suo physique du rôle da uomo action d’oggidì cozza con la nostalgica improbabilità di quel che accade al padre. Già visto e apprezzato in Jack Reacher, qui Courtney dimostra di avere la stoffa per girare film d’azione, non quella per affiancare un personaggio d’altri tempi come quello di John McClane. Il risultato, qualche vivace scambio di battute a parte, lascia freddini.
Opzione c): Die Hard 5 è un filmone. Videogioco o meno (ed è impossibile non essere d’accordo con Luca che lo definisce così), quando il film decide di premere sull’acceleratore ci si dimentica di tutto, persino che John Moore non è John McTiernan. In un’ora e mezza di pellicola (record di brevità per un Die Hard) ci sono almeno quattro sequenze di action purissima che strapperanno applausi a chiunque – se non altro perché esageratissime ed esaltanti, e tanto vi basti perché non abbiamo intenzione di rivelare nulla. È in quei momenti che tutto va al suo posto e ci si dimentica dell’assenza di un vero villain, delle battute razziste, delle assurdità di trama; è in quei momenti che Die Hard 5 diventa (appunto) un videogioco, o un luna park, dove tutto è possibile e dove ci si esalta per davvero. Sono le scene per cui vale la pena guardare il film, possibilmente al cinema: è intrattenimento puro e senza pretese, che da solo regge un edificio altrimenti barcollante. A voi decidere se è quel che volete da un film o meno.
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Mi piace
Bruce Willis, ovviamente, ormai unico motivo per guardare i film della saga. Almeno tre sequenze di action spettacolare e purissima.
Non mi piace
La sceneggiatura è, a voler essere buoni, collaterale al film. La regia di John Moore è spesso dimenticabile.
Consigliato a chi
Molto banalmente, a tutti i fan di John McClane.
Voto: 2/5
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