Dietro i candelabri: la recensione di Giorgio Viaro
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Dietro i candelabri: la recensione di Giorgio Viaro

Dietro i candelabri: la recensione di Giorgio Viaro

«Prima di Elvis, prima di Elton John, Madonna e Lady Gaga, c’è stato Liberace: pianista virtuoso, intrattenitore oltraggioso e star fiammeggiante in teatro e in TV». Rubiamo una riga dal pressbook di Dietro i candelabri, perché del personaggio appena descritto, nel nuovo film di Steven Soderbergh, ci sono più che altro quelle, le informazioni nel pressbook. Se quindi siete nati negli anni ’70, o peggio ancora dopo, e a malapena conoscete Elton John, sarà difficile che vi freghi qualcosa del protagonista. Questo d’altra parte non è un biopic, ma una storia d’amore: quella tra un artista eccentrico multimilionario gay cattolico (Michael Douglas) e un ragazzo di Milwaukee, Scott Thornson (Matt Damon), che lo incontra per caso una sera, nei camerini, dopo un’esibizione.

Liberace se lo porta a casa seduta stante: lo chiama “il mio Adone”, vorrebbe berselo in un sorso, e più o meno questo inizia a fare, anche cinque volte al giorno. Comincia a pagargli uno stipendio senza causale, a decorarlo di anelli, braccialetti e pellicce; lo accarezza (e tratta) come un gatto, gode delle sue fusa. I cinque anni della loro relazione hanno il solo difetto di essere prevedibili: Scott è lusingato dalle attenzioni di un grande artista, Liberace è lusingato dalla sua bellezza, vecchio com’è e soprattutto come sta diventando; poi, un po’ alla volta, come capita spesso con le cose belle, il ragazzo gli viene a noia. Uno abusa di una ricchezza non sua, l’altro abusa di una bellezza non sua, è alla fine non può che esserci la rottura, non consensuale, con l’ingresso nella vita e nella villa del pianista di un nuovo Adone.

Quei cinque anni d’amore, però, Soderbergh li racconta bene. Gli estremismi della dipendenza reciproca restano impressi: Liberace (che non ha mai fatto pubblicamente coming out) vuole adottare il suo amante (letteralmente); e nonostante i genitori di Scott stiano benissimo, lui stesso comincia ad accarezzare l’idea. Poi si cambiano addirittura i connotati, Liberace per cancellarsi le rughe dal volto, e il ragazzo per assomigliargli; si vestono nello stesso modo; si perdono in un delirio edonista e mutuamente cannibalico.

Tutto questo avviene, come tipico del regista, quasi sempre in interni, anche per risparmiare: i tardi anni ’70 sono messi in scena attraverso i costumi e il parrucco, qualche macchina d’epoca, la colonna sonora, e naturalmente le scenografie della grande villa di Liberace; ma la sensazione del grande affresco d’epoca, alla Scorsese, manca. Il tono è brillante, l’ironia sul mondo gay abbastanza dozzinale, ma effettivamente buffa.

Infine i protagonisti. Matt Damon è bravo, e Michael Douglas bravissimo: il suo Liberace mostra un misto di fragilità e “fame”, egocentrismo e generosità, genuine, che vengono probabilmente dalla sua vita (il famoso ricovero per sex addiction, che aveva riempito il gossip dopo Basic Instinct; il matrimonio con tanto di famigerato pre-accordo economico con Catherine Zeta-Jones; la grave malattia da cui è guarito). E il premio come miglior attore del Festival ha buone possibilità di portarlo a casa.

P.S. I “candelabri” del titolo sono quelli che Liberace amava posare sul pianoforte quando suonava nei teatri. Una trovata che rivendicava con orgoglio, insieme al fatto di guardare spesso in macchina durante le riprese televisive di un concerto.

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Mi piace
Douglas e Damon sono perfetti nei ruoli, e Soderbergh racconta la loro storia con classe e brillantezza.

Non mi piace
La storia d’amore tra i due, per quanto commovente, è anche prevedibile.

Consigliato a chi
A chi è nato negli anni Settanta e sa chi era Liberace. E a chi, invece, ne è (ancora) all’oscuro e vuole scoprire uno degli artisti più importanti e controversi del secolo scorso.

Voto: 3/5

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