Disco Boy: corpi in transito che interrogano il presente. La recensione del film premiato alla Berlinale 2023
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Disco Boy: corpi in transito che interrogano il presente. La recensione del film premiato alla Berlinale 2023

Opera prima di finzione di Giacomo Abbruzzese, con protagonista il grande attore tedesco Franz Rogowski, il film ha ottenuto l'Orso d'argento per il miglior contributo artistico all'ultima Berlinale

Disco Boy: corpi in transito che interrogano il presente. La recensione del film premiato alla Berlinale 2023

Opera prima di finzione di Giacomo Abbruzzese, con protagonista il grande attore tedesco Franz Rogowski, il film ha ottenuto l'Orso d'argento per il miglior contributo artistico all'ultima Berlinale

Disco Boy
PANORAMICA
Regia
Sceneggiatura
Interpretazioni
Fotografia
Montaggio
Colonna sonora

Aleksei (Franz Rogowski), bielorusso in fuga dal suo passato, raggiunge Parigi e si arruola nella Legione Straniera per ottenere il passaporto francese. Nel delta del Niger, Jomo (Morr Ndiaye), giovane rivoluzionario a capo del MEND, Movimento di emancipazione del Delta del Niger, si batte contro le compagnie petrolifere che hanno devastato il suo villaggio. La sorella Udoka (Laëtitia Ky) sogna di fuggire, consapevole che ormai tutto è perduto. I loro destini si intrecceranno, al di là dei confini, della vita e della morte.

Opera prima di finzione di Giacomo Abbruzzese – regista nato a Taranto nel 1983 – con protagonista il grande attore tedesco Franz Rogowski (visto anche in Freaks Out di Gabriele Mainetti) e presentato in Concorso alla Berlinale 2023, dove ha ottenuto l’Orso d’argento per il miglior contributo artistico, Disco Boy è un esordio ambizioso che, come tanto cinema contemporaneo d’impronta autoriale, scommette sui corpi, tanto degli attori quanto dei personaggi che mette in scena, e sulle ricadute della loro osservazione e tensione. 

In questo caso, in particolare, i corpi sono paesaggi di transito, luoghi e dispositivi al limite, contrassegnati da una precarietà in cerca del proprio posto nel mondo, da un punto di vista anzitutto identitario e, dunque, anche politico. La regia li accompagna, con rigore ma anche con squarci visionari, usando i neon come punto di massima deflagrazione di uno sguardo e come veicolo di esplorazione delle commistioni tra l’uomo e l’ambiente, l’individuo e il collettivo, l’irresolutezza tragico cui costringe la condizione tanto di migranti quanto di attivisti armati e il bisogno impellente di dare un nome alla propria collocazione nel tempo, nello spazio e dunque in buona sostanza nel presente. 

L’intransigenza stilistica è notevole e non teme di sfociare nel virtuosismo a briglia sciolta (come nella parte centrale, dove i silenzi dovuti all’assenza di parole sono pressoché assoluti e Disco Boy lavorando su suono e punti di vista diventa, di fatto, un film di pura regia, che attraversa il cuore di tenebra della foresta), ma il flusso audiovisivo cui abbandonarsi è al contempo interlocutorio e mortalmente affascinante, oltre che in grado di interrogare frontalmente le vertigini e le voragini della contemporaneità.  

Per il regista, che ci ha messo dieci anni a realizzarlo tra ricerche, finanziamenti e realizzazione, si tratta di un war movie atipico, in cui l’Altro esiste veramente, in modo completo, e non è semplicemente un nemico o una vittima. Questo interrogarsi sull’alterità si riversa in un’opera anche metamorfica, che trova nella suddetta corporeità anche un pretesto continuo e ricorrente per cambiare pelle, attraversare simboli e orizzonti, per non trovare alcun tipo di requie né di facile o sterile conforto. Fino ad approdare a un finale che omaggia esplicitamente Beau Travail di Claire Denis, probabilmente uno delle più grandi riflessioni filosofiche sul corpo mai portate al cinema, in chiave sensuale, misteriosa e surreale ma anche sotto forma di “puro gesto” danzante (non trascurabile anche l’omaggio a Leos Carax, dato che Alex Dupont, vero nome del regista, è quello che deve assumere Aleksei come cittadino francese, e la prima immagine di Parigi che si vede è il ponte Alessandro III che attraversa la Senna, evocando proprio il capolavoro maledetto del regista, Gli amanti del Pont-Neuf).

La parola “passaporto” è la prima che si sente nei dialoghi, quando i passeggeri del bus sono sottoposti ai controlli alla frontiera, ma Disco Boy è di fatto un film apolide e senza passaporto, realizzato da persone di una quindicina di nazionalità diverse, tra cast artistico e troupe, dove quasi nessuno degli attori recita nella propria lingua nativa. È una scelta artistica che dà tutta un’altra musicalità all’insieme e che inscrive l’alterità di cui si diceva nell’uso stesso della lingua, come sottolinea Abbruzzese, citando Deleuze e Guattari a proposito di Kafka, il quale si definiva nei termini di una letteratura “minore” proprio perché legata insopprimibilmente ad una minoranza.

Foto: Films Grand Huit, Panache Productions, Dugong Films, Donten & Lacroix Films, La Compagnie Cinématographique, Stromboli Films

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