Django Unchained: la recensione di Giampaolo Gombi
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Django Unchained: la recensione di Giampaolo Gombi

Django Unchained: la recensione di Giampaolo Gombi

Django unchained, gigantesca parodia del genere western spaghetti, a sua volta parodia del genere western. Ma come si fa la parodia di una parodia? Semplicemente ripercorrendone la struttura, rielencandone i temi? Introducendo le esasperazioni e le porzioni di irrealtà proprie di quel genere? Abbondare con le citazioni? Questo, più o meno, sembra avere fatto Tarantino.
Tuttavia Django è un film multiforme, che, come ormai l’autore ci ha abituato, sorprende e disorienta all’improvviso lo spettatore. La storia di Django, schiavo nero liberato da uno stravagante cacciatore di taglie finto dentista, con cui intraprende la ricerca della moglie per liberarla a sua volta, non è particolarmente originale, tuttavia il suo svolgimento è condotto attraverso la vena espressionista e dissacrante dell’autore, con inserti improvvisi di cupa crudeltà e di spiazzante ironia.
Sorgono domande. È lecito occuparsi di temi dolorosi e non completamente metabolizzati come la discriminazione razziale in modo così scanzonato? L’impressionante cavalcata di uomini che, torce in pugno, intraprendono una spedizione punitiva notturna nei confronti di Django e del suo protettore è improvvisamente – e inaspettatamente – messa in ridicolo quando emerge il problema della ridotta visibilità dovuta ai cappucci difettosi: la donna che ha praticato i buchi per gli occhi ha fatto un cattivo lavoro. Si può buttare in farsa una questione così bruciante come il Ku Klux Klan e le sue gesta, si può suggerire agli spettatori – e in particolare a quelli più giovani – un’immagine ridicola di una così tragica realtà? Qualunque realtà è suscettibile d’essere parodiata?
Si potrebbe dunque tacciare Tarantino di impertinenza, di aver maneggiato con troppa leggerezza temi roventi. Tuttavia una simile accusa suona per molti falsa e datata. Non sarebbe la prima volta che un artista sarebbe accusato di irriverenza.
Dunque la matassa va svolta da un altro capo. Django è l’ultimo lavoro di un regista eccentrico, che si esprime secondo i propri temi e utilizzando un linguaggio molto personale. Un artista che non teme di produrre un pastiche, in un mondo e in un tempo dove domina l’incertezza del senso. Tenuto conto di questo e dei precedenti lavori possiamo dire che questo film è un’opera riuscita? Forse no, probabilmente non è un film indimenticabile.
E se Tarantino avesse creato, con istinto di artista e quindi con un certo grado di inconsapevolezza, un’opera non classificabile attraverso i parametri conosciuti? Questo è sempre l’interrogativo di fronte al nuovo. Ancora troppe domande…
Di certo restano alcune prove attoriali di rilievo, quella di Christoph Waltz nei panni del falso dentista, dello stesso Jamie Foxx e soprattutto di Leonardo di Caprio, che tratteggia un signore del sud, capriccioso e crudele, e lo fa con una convinzione e un realismo quasi stonati in un film popolato di molte figurine e dove il cambiamento di registro e il rimescolamento delle carte è sempre lì lì per avvenire.

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