“Dogman” (2018) è il nono lungometraggio del regista romano Matteo Garrone.
Siamo nell’estrema periferia, luogo adibito ad un set già conosciuto, verso il litorale scarno, oscuro, tetro e assolutamente grigio in tutto del ‘Coppola’ (ecomostro e non solo). Tra un notturno e un bluastro offuscato, tra una piazza avvilente e dei visi scolpiti, tra un mesto servizio e una recondita vita senza speranza. In una trasformazione chiusa il gioco si svolge ristretto tra un negozio di toilette per cani (‘dogman’ appunto), una trattoria (spoglia in tutto), un Compro oro (piatto e lugubre) e una disco-slote (addobbata a zero). Pellicola vagamente ispirata al ‘canaro’ della Magliana, con personaggi simili ma con deviazioni e strade diverse. Una storia estrema dove regna il contatto amorale e violento, un essere vivo per disgrazia, un parlarsi senza attenzioni, un’amicizia assoggettata è tetra; ecco un mondo fatto di speranze finite e di uno struggente lido che non fa vedere nulla.
Il grigio mare burrascoso e i colori smorti oltre ogni eccesso ma il mare diventa fresco e vivo, colorato e solare con una bambina, Alida, la figlia di Marcello, che esente da colpe, è l’unica presente che ha voglia di uscire dal vero incubo che vede attorno. La moglie di Marcello si gira quando la bambina è presa per mano. Vanno via…dal luogo dell’inferno prima che la tragedia faccia il suo corso.
Film di metastasi quasi completa tra vittima carnefice in un non luogo oramai set per tante pellicole. E ciò che aspetti avviene, non c’è nessuna vera sorpresa, ma l’angoscia e la vile paura ti entrano dentro. Tutto appare distaccato e recondito ma le immagini restano impresse: un immaginario oltremodo cagnesco, oscuro, pestilente e vagamente lavico.
Periferia estrema, vuoto interiore, visi deteriorati e scavi sulle fughe come silenzio di anime negli sguardi scanditi da pupille vagamente roteanti. Linfa asettica e miserie estreme in una periferia (e di ogni estrema periferia) privata di tutto e potente a se stessa.
Deserto di piazza, uno scivolo, una rotonda di cemento, un’altalena, pozzanghere e un lido grigio e offuscato. Miserevolmente senza modi e mode, il cinema inquadra, in modo favolisticamente tragico, il deteriore di un lavaggio per cani, come il finale di una chiosa guerriglia tra capi beceri e linguaggi conclusivi.
Omaggio ad un cinema sociale che si immerge in uno scontro western senza veri duelli e senza vere pistole. Tutto è dentro tra Marcello e Simone, tutto per una sporcizia di mercato drogato, dove il piccolo e indifeso omino dei cani sembra essere protetto e conosciuto, mentre l’omone pieno di s-grazia naturale beve e sniffa dal mercato dell’altro. Chi ama una figlia senza confini e che ama una madre come confinata in casa.
I due sembrano complementari tra un coglionesco e misero modo di vivere come tra un gigione-mento e virulento modo di campare. La vita grama, sfinita, logora e senza passione amicale in un estremo mondo che sembra piovuto dal cielo. Le pozzanghere si lasciano guardare fino al nulla attorno.
Gesto estremo quello di Marcello che per salvare l’amicizia, così gli pare, la vita attorno a lui, il suo lavoro è quello che rimane della dignità, cioè nulla o quasi, si fa incarcerare, un anno, per salvare Simone e ciò che vede attorno. Una rapina e un buco, una firma in calce e le sbarre come segno di amicizia. Costo e viltà, paura è un po’ di coraggio ridestano la voglia di una vendetta a capo di se stesso.
Marcello e Simon(e)cino, un uomo che chiama ‘amore’ qualsiasi cane e un ex-boxeur che non ha da chiamare nessuno, un vile che vuole farsi accettare e un duro che abbraccia la madre come per liberarsi di colpe. Un cordone ombelicale unisce tutti: paravento è la bustina, la piccola dose e le corse in moto come segno del mito. In luoghi chiusi e privi di luce, fino alla fine quando il fuoco vorrebbe espiare una colpa. Il grido di Marcello verso i suoi amici nel campetto di calcio, in un notturno da sfida, vuole silenzio e disperazione. Nessuno ascolta perché nessuno è lì: solo i mostri dentro i cervelli fusi di una sfida angosciante. Ecco che la postura piccolo-grande, omino-omone pare una zattera di salvataggio in un turpiloquio di immagini aride, scosse e spente. In ultimo il suo osservare il corpo, il suo vivere nella morte e il gesto di una miseria senza uscita. Non è un tunnel di salvataggio ma l’affogo (totale) in un mare in tempesta (spento di saette).
Aria senza ossigeno, animali da servire, esposizione in fiera, gare di taglio, abbellimento vacuo per piacere ad una figlia. E il ‘dogman’ ride di se stesso, con poco e senza nessun gusto. E’ il lavaggio dei cani (con un cellulare invisibile) che desta memoria, è il luogo dei destini che entra dentro come delle viscere.
Niente separa i due, nulla divide i loro corpi neanche una gabbia per cani. Catene e sangue, pressa e spalle, ammanto e fuoco: la silhouette del passo con la morte in spalla desta ribrezzo e discesa putrida come spirale in canna. Uno sguardo del regista come feticcio di ieri e dell’oggi presente. Senza nessuna compiacenza e con un distacco macabro alquanto violento.
Marcello Fonte (Marcello) non recita ma si muove con un destino già segnato: interpretazione che gli è valso il premio a Cannes; Edoardo Pesce (Simoncino) sembra ‘palla di lardo’ di kubrickiana memoria. Il tragico sfiora in parvenza il ridicolo iperbolico in modi favolisticamente inespressi. Un qualcosa di impercettibile e (forse) mai cosi vicino.
Regia di Matteo Garrone senza compiacimenti, lontana e misera, poco accomodante e inerme.
Voto: 7½/10 (***½).