Un anonimo quartiere favolistico (almeno nella sua collocazione quasi trascendentale) e fatiscente. Una trattoria. Un compro oro. Un negozio di toelettatura per cani. Questo il caratteristico contesto all’interno del quale Matteo Garrone ambienta il suo Dogman, rivisitazione in chiave cinematografica dell’episodio di cronaca nera del “canaro” della Magliara.
Un “canaro” è infatti il protagonista del film, Marcello, un uomo mite, curvo, mingherlino, benvoluto dagli altri, che si dedica con passione alla cura dei suoi “Amori”, i cani. A loro mostra il proprio affetto, la propria semplicità, che tende ad un puro atteggiamento ingenuo di bontà nei confronti di coloro che gli stanno intorno , ma il suo cuore è donato soprattutto alla felicità della piccola figlia Alida, unica vera luce innocente nel mondo pessimistico, senza sconti o illusioni creato del regista romano . Al debole Marcello, si affaccia la figura antitetica di Simoncino, un burbero e violento ex pugile che sfrutta la bontà e la troppo facile accondiscendenza del più fragile. E Marcello, forse per paura, forse per interesse o per la speranza di trovare un amico al di là dei propri animali, si lascia trascinare passivamente, quasi per inerzia in un piccolo giro di crimini e droga, fino a farsi assorbire in un vortice inarrestabile e ineluttabile di violenze e vessazioni, il cui continuo perpetuarsi avrà esiti inaspettati.
Garrone, mutuando un procedimento speculare a quello seguito con “L’imbalsamatore”, prende spunto da un episodio realmente accaduto per creare un opera semplice, cruda, malinconica ma potentemente viva e realistica. Senza abbandonarsi a riduttivi giudizi etici , lasciando da parte la morale o la condanna, il film si concentra sulla nitida analisi di un percorso ( che segue passo dopo passo una struttura cronologica precisa, dove ogni scena è consequenziale alla precedente) di sopruso e degenerazione. Dogman scava a fondo nell’animo umano, nello squallore e nella banalità del male, così come nella fragilità del bene, aspetti contrastanti di una realtà netta, chiara e semplice, senza sfaccettature o apparenti complessità superficiali. Il pessimismo e la pulita analisi di una realtà ai margini dell’ipocrisia della società contemporanea, quasi racchiusa in una atmosfera a sè stante, fuori dal tempo, e ornata dall’immaginario atipico di un autore amante della mescolanza tra il grottesco e il concreto, ci donano un’immagine terrena, umanissima dell’uomo. La storia colpisce per la sua naturalezza, a partire dalle silenziose e poetiche gite subacquee che Marcello si concede con la figlia, sognando nel mentre un viaggio esotico alle Maldive o alle Hawaii. La cinepresa rimane sempre salda, concentrandosi su inquadrature statiche, indugiando sul particolare, e mostrando la suggestiva fotografia che tinge gli ambienti di ocra e colore pastello, riuscendo a infondere una resa pittorica ad un panorama urbano desolante, al di fuori di tutto e tutti.
Dogman è il racconto di un uomo, un individuo qualunque, il ritratto della lapidaria dicotomia tra oppresso e oppressore, scevro di ogni artificio retorico, ma saturo di compassione e partecipazione emotiva. Garrone fa trasparire in maniera purissima la pietà che si origina dalla frustante vita dell’essere minuto, senza però prenderne mai apertamente le parti. L’occhio rimane distante, filtra dall’esterno, e da lì si vede impotente testimone del male insito nell’esistenza. Un film completo, toccante, che non spiazza, non commuove, ma come una vera opera cinematografica mostra, scava a fondo, penetra le dinamiche umane, lasciando allo spettatore un sapore acre, amaro , ma quanto mai autentico. Forse è proprio l’autenticità così limpida a fare di Garrone un maestro del cinema d’autore italiano, che nella sua espressione artistica diretta e personalissima, colpisce dritto nel segno.
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