Dopo l'amore
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Dopo l’amore

Dopo l’amore

Perfino una casa da 12 stanze può diventare troppo piccola per contenere la fine di un amore. Quando due persone si lasciano, i “sentimenti residui” sono potenti, distruttivi e soprattutto contraddittori: l’odio si impossessa dello sguardo, l’altro diventa irriconoscibile, insopportabile alla sola presenza, esasperante in ogni minimo difetto; eppure basta un nulla – una canzone, ad esempio – a far riemergere il ricordo della felicità che fu. È ciò che succede in Dopo l’amore dove il regista belga Joachim Lafosse racconta con precisione chirurgica quella zona grigia in cui l’amore si è ormai sfilacciato, eroso, esaurito, ma il continuare a voler bene al proprio ex è ineluttabile. Per certi versi sembra di tornare ad abitare le stanze del motel di Blue Valentine o della villa de Il passato (con cui, tra l’altro, il film condivide la protagonista Bérénice Bejo), ma qui la sensazione è ancor più claustrofobica. L’impostazione teatrale basata sull’unità di spazio – praticamente tutto il film è ambientato nelle stanze e nel cortile della villa a Parigi dove vive la coppia con le due figlie – fa rimbombare ogni litigio: costretti a rimanere sotto lo stesso tetto un po’ per problemi economici, un po’ per il presunto benessere delle bambine, un po’ perché non si vogliono lasciare del tutto, Marie e Boris si vomitano addosso cattiverie su cattiverie che, rimanendo chiuse in quelle stanze insieme a loro, producono un’eco insostenibile. E così ognuno di loro è obbligato ad ascoltare il rumore delle propria ambiguità: Marie deve fare i conti con la sua identità alto-borghese da cui vorrebbe staccarsi ma che le fa comodo quando deve pagare le scarpe nuove alla figlia mentre Boris deve ammettere il proprio parassitismo (economico, ma anche emotivo) nei confronti della moglie.

Se dunque la casa è una sorta di prigione, quella stessa casa è paradossalmente – e questo è uno degli aspetti più affascinanti del film – carica di luce. Il dolore si aggira per un luogo caldo, quasi sempre baciato dal sole, luminoso, che crea contrasto con l’ombroso presente dei protagonisti. Quella casa che Marie ha ereditato dal padre e che Boris ha ristrutturato con passione è davvero un personaggio del film, un testimone muto ma assordante che racchiude tutti i ricordi e che resta, nonostante sia lasciata un po’ andare, bellissima. Ora, “dopo l’amore”, quella casa è ovviamente ancora lì, ingombrante, luogo impossibile da condividere, ma anche da dividere. La battaglia legale per la divisione del suo valore è l’emblema delle macerie del matrimonio di Marie e Boris: la casa appartiene a chi l’ha ereditata o anche chi l’ha ristrutturata e dunque fatta propria ha diritto a rivendicarne una parte? Lafosse è maestro nel fotografare questa situazione dolorosa in cui l’amore rischia di farsi seppellire da quella “économie du couple” citata nel titolo originale.

In conclusione, Dopo l’amore è un film di grande delicatezza, carico di commozione e di verità. Una verità costruita grazie a un cast di bravura ineccepibile: la già citata Bérénice Bejo (The Artist, vista recentemente in Fai bei sogni di Bellocchio) regala una delle sue migliori interpretazioni, seconda solo a Il passato) mentre Cédric Kahn (nella vita anche regista) è perfetto nel declinare le sfumature di forza e fragilità del suo personaggio.

Mi piace:
La delicatezza e la verità acre con cui il regista racconta quella zona grigia in cui l’amore si è ormai eroso ma il continuare a voler bene al proprio ex è ineluttabile. E poi i bravissimi Bérénice Bejo e Cédric Kahn.

Non mi piace:
In certi momenti la sceneggiatura è un po’ ripetitiva.

Consigliato a chi:
A chi ha amato Blue Valentine o Il passato.

Voto: 4/5

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