Oso ricondurre gl’intoccabili Dardenne fra noi comuni mortali. Film degno d’un Loach in trasferta oltremanica e depauperato d’ogni genuino vibrante sussulto. Melodramma domestico e problemi psichici farmacodipendenti confusi in malo modo con la vicenda aziendal-impiegatizia: prole e proletariato, “tengo famiglia” e “tengo lavoro”. C’è pure chi ha proposto il paragone con la suspance di “La parola ai giurati”, ma Lumet raccontava d’una verità “opinionale”, soggettiva e prospettica, argomenti pirandelliani e kurosawiani, non dilemmi etici che, ipercontestualizzando l’umiliante calvario della protagonista e la sua progressiva riconquista della dignità, scadono a reportage di denuncia sindacale sulla classe operaia ch’ancora non va in paradiso. Detto altrimenti: un po’ Dreyer e un po’ Van Morrison, “Passione” e “Gloria” d’una Giovanna d’Arco ai tempi della post-industrializzazione. Ps.: le benzodiazepine hanno sostituito i barbiturici anche grazie a una tossicità così bassa da escludere il suicidio in qualsiasi caso. Il sovradosaggio induce solo tanta sonnolenza. Come questo film.
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