“Easy. Un viaggio facile facile” (2017) è il primo lungometraggio del regista riminese Andrea Magnani.
“E adesso cosa faccio?”. Ecco che la domanda di Isidoro, detto Easy, dopo aver raggiunto il suo scopo rimane sospesa e persa. Rimanere?, Tornare indietro?, Continuare la storia?, Evaporare?, Basta così? Mi daranno un altro film? E poi…
Il contorno a fumetto del corpo di Easy chiude il sogno di un viaggio che ride e irride ogni modo e ogni gesto del nostro ‘grasso’ eroe che di dieta non ne vuole sapere. Mai. Ingozza di tutto pur di arrivare a destinazione e far conoscenza di mondi diversi. Culture, facce, cibi, usi e parole. Tutto escluso dall’interiorità infantile di Easy.
Nel cantiere di Filo (Libero De Rienzo) muore un operaio di origine ucraina. Il corpo deve essere riportato alla sua famiglia: viene incaricato il depresso e obeso fratello Easy, un ex promessa dell’automobilismo e un patito della Playstation. Accetta l’incarico guidando l’auto funebre della ditta. Ha in soccorso una pianta satellitare e un cellulare che traduce le lingue. Tutto facile? Mica tanto. Tra dogane impazzite, bagni chiusi, auto rubata, bara sulla strada, orientamento perduto, autostop sui generis, ospitalità strampalate, poliziotto in pantofole, carretto con cavallo e un trasporto manuale, il povero Easy vede di tutto e si ritrova senza vestiti dopo una bevuta in omaggio. E poi arriva a destinazione? Chi sa se qualcuno riconosce il passaporto vecchio di qualche lustro quando c’era il simbolo della vecchia Unione Sovietica?
Un film di una leggerezza inusitata ma nello stesso tempo di una dolcezza interiore che non t’aspetti; tutto con un passo asciutto, sornione, con poche parole e niente virtuosismi inutili di macchina. Un divertimento mai sguaiato, incantevole e, soffusamente, surreale. Gli spazi tra i vari pezzi di viaggio di Easy sono vuoti, azzerati nel montaggio: uno stradario essenziale di ambienti e visi, natura e silenzi umani. Lo score musicale di Luca Ciut attacca i titoli iniziali e di fondo come in due-tre casi all’interno del girovagare di Easy tra una dormita e un ascolto di lingue incomprensibili. Lo sguardo stralunato, candido e assorto dell’attore Nicola Nocella (premiato come miglior attore al Locarno Festival) riescono a farne un personaggio che rimane: nessuna scena pare forzata o sovrappiù. Tutto con gesti semplici e immediati mentre in una comunicazione sorda scorrono i sottotitoli in italiano per lo spettatore ‘privo’ della facoltà di capire. Eppure si ha la sensazione che non servirebbe neanche la traduzione: tutto appare diretto e si intuisce il senso o il non senso del tutto.
Ecco le sequenze di silenzio, ricordando il muto, paiono salutari, forti e di lascito di un cinema italiano che ha dimenticato di far pensare lasciando dietro un sorriso e uno sberleffo. Ecco che la bellezza e l’attore di razza mancano ma non ne abbiamo bisogno perché non mancano idee e un volto bonariamente efficace: Easy è dirompente nel fare quello che è normale per lui tra cibi iperproteici, giochi virtuali e lassismo depressivo.
Il camionista, il viso di Easy e la bara tra i polli sono uno scherno ad un scena che neanche immagini. E la nonna davanti alla vasca dove il nostro si copre per vergogna è un ‘comica’ moderna’ di un Buster con le sembianze di Oliver. Si ride e si sorride senza volgarità e le telefonate (non-sense) tra Easy e Filo sono un appiglio per continuare. Un arresto e un funerale per finire.
“Una storia (quasi)vera” parafrasando il titolo del film di David Lynch: analogie di viaggi impossibili e assurdi dove i volti e gli itinerari diventano interiore.
Regia spiritosa e avvolgente, minima e attenta.
Voto: 7+/10.