Sei ragazzi vengono invitati a partecipare a una Escape Room: in un palio c’è una ricca ricompensa in denaro che attende il più valido di loro. Una volta chiusi nella stanza, quello che sembrava un gioco come tanti altri si rivelerà però una trappola mortale.
È questa la premessa macabra da cui muove Escape Room di Adam Robitel, gioco al massacro con un gruppo di estranei catapultati verso un comune destino mortifero, da consumarsi all’interno di un puzzle movie con in palio un premio da 10.000 dollari. Il modello di riferimento più smaccato è evidentemente Saw – L’enigmista, con dentro una spruzzata di ironia e una manciata di personaggi eterogenei che non potrebbero essere più diversi e che si ritrovano imbrigliati nel medesimo incastro a scatole cinesi di luoghi e di ambienti (pronti a susseguirsi uno dopo l’altro, di pari passo con i vari indizi).
In questi prodotti il meccanismo della moltiplicazione e della continua riproduzione di situazioni e colpi di scena va ovviamente per la maggiore e il divertimento, da parte dello spettatore, sta nell’immedesimarsi con gli attori messi in campo da un punto di vista quasi videoludico, sbizzarrendosi con i chi e con i cosa molto più che con i come e con i perché, molto spesso gioiosamente pretestuosi e confusionari.
Già dietro la macchina da presa per Insidious – L’ultima chiave, quarto capitolo della saga ma secondo in ordine cronologico, Robitel mette in scena un meccanismo tanto alimentare e risaputo quanto spassoso. Un andirivieni di sangue e punizioni capitali, che prende le mosse dal più classico cubo nero. Un oggetto recapitato, in forma d’invito, ai partecipanti e che nessuno è naturalmente riuscito ad aprire. Il fenomeno delle escape room, dopotutto, esiste realmente e il film, tenendo basse le pretese ma premendo sul pedale dell’acceleratore delle trovate ghignanti e delle scenografie senza limiti, prova a dargli una cornice il più pazzoide possibile, senza trascurare la contemporaneità di un fenomeno di notevole impatto culturale.
Ognuno dei protagonisti del gioco ha naturalmente qualcosa in serbo da far emergere lungo l’arco della narrazione, che si propaga e si distende passo dopo passo e livello dopo livello come un virus impazzito disposto a lasciarsi inghiottire dall’occhio di chi guarda e poi, puntualmente, a rigenerarsi e a trovare nuova linfa nello stadio successivo dell’esperienza. È un cinema basico e di istinti primari, quello di Escape Room, che è costato pochissimo (appena 9 milioni di dollari) e ha già agilmente quintuplicato i propri incassi (53 già in cascina, fino a questo momento).
Un’economia di mezzi e di intenti sensata proprio perché attenta al mercato e all’idea di offrire agli appassionati del genere un’esperienza sanguinaria ma anche goliardica. Come testimonia, anche in questo caso, il pirotecnico finale, che in termini di trovate non bada a spese per aprire le porte al probabilissimo sequel.
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