“Escobar. Il fascino del male” (Loving Pablo, 2017) è l’ottavo lungometraggio del regista-sceneggiatore madrileno Fernando Leon de Aranoa.
A pochi anni dal film ‘Escobar: Paradise Lost’ di Andrea Di Stefano (del 2014 e distribuito in Italia a fine Agosto 2016 con incassi non certo eclatanti) ecco arrivare dopo poco tempo un’altra pellicola sul ‘fascino’ (nel sottotitolo in italiano con modifica di quello originale…come sempre senza un motivo) di Pablo Escobar e il suo impero ‘sporchissimo ’ del narcotraffico in Bolivia.
Medellin (definita ‘città della eterna primavera’) è la fine-patria per Pablo Escobar e quello che il suo impero toccava: narcotrafficante di tutta l’America latina per Usa, Canada e l’Europa. Un personaggio che controllava tutto e un accumulo di ricchezza esorbitante. Nel film si parte dagli anni ottanta fino alla sua morte del 2 dicembre 1993. Il ‘cartello di Medellin’ aveva chiuso: tutto divenne nel breve un autunno e la fine.
Una biografia ad alto ritmo monocorde o meglio a basso vigore narrativo. Pablo per gli amici (molti) della sua cerchia non ama preamboli e liste di compiacenze ma va diritto ad ogni successo senza badare a guerriglie, fuoco, violenza e mercato oltre ogni dovuto. La cocaina, di cui è il re, deve essere ben spiegata e venduta immediatamente.
Basta bloccare il traffico di un’autostrada con un tir in diagonale per avere spazio libero e un atteggio di un aereo ….per depositare pacchi, molti pacchi, quintali e quintali di polvere bianca. E i faccendieri che divo smerciare e vendere caricano a più non posso.E sì che Pablo vuole fare carriera senza remore e senza sconti per nessuno, i nemici e gli amici che sanno troppo e i vicini che devono ubbidire. Guardie del corpo strette a lui fino alla fine e il suo ragazzo accanto…..fino alla morte : fa scappare prima lui, si fidava ma i colpi di proiettile colpiscono entrambi.
A Medellín in Colombia il boss è lui, fa mercato dappertutto, e anche Reagan e Nancy intervengono in tv (immagini di repertorio) con dichiarazioni contro la droga e per fermare il proliferare del narcotraffico. A tal proposito è uscito l’anno scorso un altra pellicola che parlava di traffico di droga tra America latina e Usa (‘Seals. Una storia americana’ dove alcune immagini, fotogrammi tv sembrano ricalcare e viceversa l’argomento…interessante il confronto di persone, date e posti di smercio: infatti il pilota di cui si parla arriva al ‘cartello di Medellin’).
Javier Bardem ha la parvenza (oramai), o meglio dire la pasta corporea e di sguardo, del truce personaggio. Ultimamente l’attore riempie recitazione forti, oltre misura, scorrette che non guardano al gusto personale. Pellicole dove il tignoso, il faccendiere, il rompi schermo è quasi sempre lui. E si deve dire che fa poca fatica ad essere antipatico e in parte.
Sono finiti i tempi, o forse non ci sono mai stati, di parti edulcorate, accondiscendenti e semplici e poco g(t)esticolanti; il Pablo è l’eroe di tutti al contrario, vede gli altri soccombere, sottovivi, mortuari, pezzi di carne (letteralmente tagliarli per chi si permette di solo pensare per contraddirlo), peni mosci e donne usatissime. C’è solo la sua famiglia fino alla fine, la moglie che gli perdona tutto (chi sa se il potere o come si usa e per che cosa fa gola sempre e comunque alle lady di sempre) e la figlia che avrebbe voglia di un buon gelato (ma le sbarre si aprono fin troppi per paura fino però ai fucili puntati senza sconti e il ‘nostro’ mostre si ritira ai suoi pochi metri quadrati. La vita usata per avere tutto, droghe varie da vendere, denaro a fiumi, giornalisti consenzienti, voci corali, corpi protezione, vagine varie e nudità in un vortice del ‘meglio’. E quando Escobar scappa dalla sua ‘prigione’ di difesa (in un bosco impervio) mentre gli elicotteri avvistano tutto ed inizia il corpo a corpo di pallottole , la sua nudità fa tristezza e fa effetto di sgradevole misura di poco da dare. Solo un’arma per tenere il suo corpo. Fino all’ultimo senza sconti. E le sue palle di grandezza finiscono come le altre ammosciate. E la telefonata ultima è per la sua famiglia, i suoi figli e il suo ultimo destino da salvare comunque.
Un film sfatto, sconclusionato, senza minima verve, soporifera-mente posticcio, palloso e petulante nello stesso tono monocorde. Sfaccettature linearmente piene di fuoco e rughe, tutto al quadrato con umanità quasi azzerata dove la politica boliviana è fuori ma rimane dentro in ogni cosa. Il popolo degli stracci mai lavati in una Medellín amorfa, spenta, morta e castrata dai suoi significati pre-antichi e per niente viva sul futuro. Bardem ci mette tutto se stesso per rendersi antipatico e ‘figlio di puttana’ sembra (anzi è) il marchio di fabbrica di tutto il suo parlare: si dovrebbero contare quante volte dice la stessa cosa sempre.
E la giornalista Virginia Valleio (Penelope Cruz) passa dall’inchiesta al divorzio, dall’amante all’odio, dalla camera letto al livore per Pablo: in un attimo è già ‘sotto’ al nemico della legge, in più di un attimo è inseguita dalla paura. Tutto in fretta. Senza medaglie da onorare. Mi aiuti, noi vogliono ammazzare, mi telefonano, tra noi la storia è finita: incubo che pervade la sua vita di pura compiacenza fino al giorno prima e fino alla fine terrena di Escobar e della sua guardia del corpo. La sua voce di racconto (fuori campo) troneggia con un senso di fastidio.
Regia mirata e livida, mesta e di appannaggio.
Voto: 6-/10 (**½)
(voto addolcito…per una sala di pochi in un vuoto completo…rischia di alzare bandiera bianca…).