Raccontare una storia universalmente conosciuta come quella di Mosè e la fuga degli ebrei dall’ Egitto, tra l’altro già resa immortale al cinema per ben due volte nei capolavori di Cecil B. DeMille, è un impresa che solo ad un regista abituato a fare le cose in grande come Ridley Scott poteva riuscire.
Forte dei propri successi commerciali e di critica, tra tutti Alien, Blade Runner e Il Gladiatore, ma anche di qualche bruciante flop, almeno Le Crociate e il Robin Hood con Russel Crowe, il regista inglese trapiantato in America sceglie di rivisitare il vecchio testamento con il proprio punto di vista e a mio parere se la cava meglio che l’ambizioso e un po’ insulso Noah di Darren Aronofsky visto di recente.
Per definire Exodus c’è da usare convintamente la parola kolossal, perché di questo si tratta: uno spettacolo potentissimo sotto tutti gli aspetti, a partire dal 3D dei paesaggi maestosi alle scene più spettacolari ed iconiche (le piaghe d’Egitto, l’attraversamento del Mar Rosso), il tutto è reso con grande abbondanza di mezzi ed una cura molto ricercata dei dettagli e questo si vede in ogni singolo fotogramma.
Sulla trama niente di nuovo: il saggio faraone Seti ha due figli, uno naturale e uno adottivo, che educa a diventare grandi e saggi condottieri allo stesso modo, ma alla sua morte la rivalità dei due si accende fino a renderli nemici; Mosè scopre di essere ebreo come gli schiavi più sfruttati del regno e Ramses, succeduto al padre, lo fa esiliare perché teme che il fratellastro voglia prendere il potere.
Dopo esser dunque sfuggito alle trame di palazzo, Mosè viaggia lontano, si sposa e mette su famiglia in una splendida oasi conducendo una vita semplice, ma allo stesso tempo prende coscienza delle proprie origini, matura in sé il senso di ingiustizia per le condizioni del suo popolo rimasto in catene a subire e morire per costruire la gloria del faraone: riceve quindi la chiamata di Dio, che gli da il compito di tornare in Egitto a liberare gli israeliti e vendicarsi della vanagloria dei pagani.
Quale soddisfazione migliore per il vendicativo Dio del vecchio testamento che avere un tipo tosto come Christian Bale nel ruolo di Mosè, che con il massimo impegno si cala nei panni seriosi ed epici del grande trascinatore di folle, non trascurando di metterci qualche tratto di lieve follia allucinata (quando viene visto discutere animatamente con una divinità che solo lui può vedere) e la tempra un po’ “gladiatoria” del condottiero instancabile.
A bilanciarlo c’è un antagonista altrettanto ben studiato: il Ramses interpretato dal poco conosciuto Joel Edgerton è tutt’altro che il solito malvagio, è mostrato invece come un giovane monarca inesperto e manovrato che si fa prendere la mano dal proprio potere illimitato, ma che allo stesso tempo nutre affetto per il proprio fratello e non lo capisce quando questi gli si ripresenta a palazzo pretendendo la liberazione degli schiavi e farneticando di verità religiose: la sua reazione di irrigidimento provocherà la collera del Dio degli ebrei e la loro fuga, ma sotto l’eyeliner pesante e le armature dorate c’è un cuore e spesso non si può fare a meno di riconoscergli il beneficio del dubbio.
Anche in questa scelta si nota la volontà di Scott di voler rileggere il classico sotto un’ottica il più “razionale” possibile senza però voler snaturare gli aspetti più “sacri” della vicenda: ad esempio le sette piaghe sono spiegate per certi versi come conseguenze scientifiche della crudele volontà divina (le acque del Nilo si colorano di sangue per gli attacchi in massa dei coccodrilli, che fanno proliferare sulla terraferma le rane, che morendo portano le mosche e le piaghe ecc.), insomma un equilibrio tra rigore biblico e intrattenimento adulto per niente facile ma in larga misura riuscito.
Ho trovato anche interessante la scelta, dovendo raffigurare Dio, di farlo in modo originale, cioè sotto forma di bambino impertinente e pretenzioso.
Confesso i miei peccati dichiarando di non aver mai guardato alcuna versione de I Dieci Comandamenti, ma pur ripromettendomi di recuperarli al più presto riesco comunque a notare l’intenzione del regista di volersi differenziare dai classici hollywoodiani, adattandoli al gusto contemporaneo: in definitiva il risultato è un filmone solido, classico e convenzionale non in senso negativo, un vero kolossal dei nostri giorni.
La dedica finale è per Tony Scott, il fratello del regista quasi altrettanto famoso, morto suicida nel 2012.