Dimensioni da kolossal e aspetto visivo a parte, bisogna fare piazza pulita dell’idea tradizionale di film storico e biblico di fronte a Exodus – Dèi e re. Via I dieci comandamenti di Cecile B. De Mille. Via il Charlton Heston barbuto che scende maestosamente dalla montagna dove Dio gli ha consegnato le tavole dei dieci comandamenti, per redimere gli ebrei dissoluti che venerano il vitello d’oro. Mosé (Christian Bale), nella rilettura di Ridley Scott, è prima di tutto un generale, un consigliere politico, uno stratega, un buon figlio e un fratello leale, che in seguito diventerà un pastore e un padre di famiglia. Profeta lo sarà solo alla fine: per caso e controvoglia, prima di tornare come Ulisse alla sua casa.
Scott, per questo blockbuster sotto commissione, sceglie una prospettiva profondamente umanista e – come sempre nella sua filmografia (vedi anche Le crociate) – a distanza di sicurezza da intolleranze e afflati religiosi, fedeltà ai testi sacri e dispute etnico/politiche. Nella prima parte il film somiglia molto al Gladiatore per la dinamica che si instaura col fratellastro Ramses (Joel Edgerton), di lui geloso e invidioso come Commodo, perché preferito dal padre Seti (John Turturro), faraone benevolo e illuminato à-la-Marco Aurelio. Anche Mosé passerà dalla condizione di privilegiato a quello di schiavo come succedeva a Massimo Decimo Meridio, ma non respirerà polvere e risentimento fino alla vendetta finale: se ne starà in incognito con una giovane e bella moglie e il loro figlioletto per nove anni, desiderando solo di invecchiare in pace, fino alla chiamata del Signore. Che gli si manifesterà sotto forma di un bambino petulante e dispotico.
Il Mosé di Bale, al cospetto di questo Dio impaziente e vendicativo, opporrà le armi della ragione e del dialogo, svelando lo sguardo illuminista con cui il regista ha approcciato la tradizione biblica, privando però il film della trascendenza mistica propria del genere. Lo “scienziato” che tenta di spiegare empiricamente al faraone la comparsa delle piaghe svolge la medesima funzione ed esplicita ancor meglio il desiderio di Scott di contrapporre fede e raziocinio, con un atteggiamento bipartisan. Anche sul versante dell’epica Mosè non è artifex partecipe del progetto divino, ma un uomo tormentato, che assiste impotente e pieno di sensi di colpa ai flagelli che Dio lancerà sul popolo egizio. Un personaggio pieno di ombre e dubbi, un profeta oscuro e incerto, che sogna il buen retiro.
L’errore più grande del film sta proprio nel non essere riusciti a strutturare il personaggio di Bale, conferendogli l’aura del vero eroe o del santone. Anche un eroe più introspettivo deve comunque attraversare un processo trasformativo, giungere a una “conversione”. Carente anche il versante epico, tanto da farci rimpiangere una qualsiasi delle retoriche line de Il gladiatore, da “Forza e onore” a “Mi chiamo Massimo Decimo Meridio… e avrò la mia vendetta in questa vita o in quell’altra“. E tuttavia Scott ha saputo trasformare la Storia in un spettacolo science-fiction visivamente suggestivo, dove abbandona ogni realismo, riempiendoci gli occhi di immagini ipnotiche: scene di battaglia, coccodrilli affamati, fiumi insanguinati, locuste voraci, piaghe sulla pelle, bambini che si spengono nel sonno, attraverso montaggi ininterrotti, panoramiche spettacolari e un 3D notevole.
Il regista sa come si mette in piedi un grande spettacolo che appaga i sensi, ma ha lasciato indietro personaggi e dialoghi. A catalizzare l’attenzione è l’occhio bistrato di kajal di Ramses: col suo egocentrismo infantile, i suoi complessi di inferiorità (che cerca di compensare con le manie di grandezza), il suo slancio verso moglie e figlio, è il più autentico e intrigante.
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Mi piace: la spettacolarizzazione della tradizione storico-biblica; l’approccio science-fiction emblematico nella scena delle piaghe
Non mi piace: la scarsa caratterizzazione psicologica dei personaggi principali e la carenza di epicità del racconto
Consigliato a chi: ama i kolossal spettacolari e gli effetti speciali
VOTO: 3/5
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