L’idea di fondo di Soul, che ha aperto oggi l’edizione 2020 della Festa del Cinema di Roma, è la stessa di un film che gli assomiglia per il resto pochissimo: 21 grammi di Alejandro González Iñárritu. Il perché nella recensione di Soul.
Come in quel film, anche qui l’anima umana risiede in una collezione di istanti, una somma di attimi densi di significato che in qualche modo ci definiscono come individui. E, come in quel film, questa rivelazione avviene attraverso un montaggio musicale, in un’epifania di suoni e colori che cercano la commozione dello spettatore, un giochino di prestigio che la Pixar ripete da anni con ottimo esito.
La storia è quella di Joe, pianista dilettante che insegna musica in una scuola ma sogna di guadagnarsi da vivere in un quartetto jazz, esibendosi nei club di New York. Proprio il giorno in cui il suo desiderio è sul punto di realizzarsi, però, Joe cade in un tombino e muore. O quasi. La sua anima si ritrova intrappolata in un limbo assieme a milioni di altre, su una specie di corsia mobile che le guida verso una grande luce, metafora di un aldilà misticamente neutro e quindi politicamente corretto. Qui inizia il secondo atto ma partono anche i titoli di testa, innescando l’avventura del protagonista, che vuole a tutti i costi tornare sulla Terra a godersi la sua occasione.
Questa nuova versione Pixar dell’aldilà è anche la parte più stimolante e innovativa del film, per come traduce concetti astratti (l’indole, il talento, la predisposizione, l’alienazione) in invenzioni grafiche, non diversamente da quanto accadeva con il mondo delle emozioni in Inside Out. Anche perché il character design si prende la libertà di mischiare stili apparentemente inconciliabili – creature bidimensionali e tridimensionali, tonde e spigolose, spazio astrale e morbide colline color pastello – trovando sempre la misura perfetta per farli interagire, usando ispirazioni che vanno dalla Linea di Cavandoli (il personaggio del contabile Terry, il più riuscito del film) fino ai Minions.
Sul messaggio – stavolta si punta il dito contro tutte le forma di narcisismo – c’è invece meno da dire, ormai le Major – da Disney a Netflix – seguono quasi sempre lo stesso spartito, una laicità anodina e un progressismo di maniera che è l’esatta misura dei nostri tempi e quindi tocca le corde più sensibili del pubblico. A questo proposito Soul è incentrato sul tema della morte e delle occasioni perdute, ma è molto più solare ad esempio di Coco, rifuggendo le questioni legate al lutto. È in sostanza una commedia fantastica e multimensionale, in cui la maggior parte delle gag sono basate sui comportamenti antropomorfi di un gatto (vedi Pets) o sulla bonaria ironia nei confronti di figure storiche come madre Teresa o Abramo Lincoln: diverte ed emoziona con collaudato mestiere.
Piccola nota finale, forse lapalissiana: il film sta assai bene su uno schermo di grandi dimensioni, che valorizza sia i viaggi astrali che i magnifici scorci – a volte luminosi, altre malinconici – di una New York autunnale. È quindi certamente un peccato che la maggior parte del pubblico potrà vederlo solo su piccolo schermo.
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