C’è una qualità cinematografica spontanea in Francesco Totti che è chiara a tutti, ma un documentario sportivo è un genere a sé e non c’erano garanzie che Alex Infascelli avrebbe saputo tradurla in un progetto audiovisivo riuscito (basta pensare a quel disastro di Celebrity Hunted).
Il confronto è con altri prodotti analoghi, per esempio il documentario su Maradona di Asif Kapadia, ma naturalmente anche con il cinema in generale, cioè con la possibilità di una storia di farsi universale ed entrare in contatto con un pubblico di non tifosi.
Mi chiamo Francesco Totti
Infascelli ordina gli eventi salienti della carriera del giocatore secondo una scaletta che qualsiasi sportivo avrebbe potuto prevedere – i primi calci al pallone, la scoperta del talento, l’esordio in prima squadra a 16 anni, lo scudetto, l’infortunio alla caviglia, il Mondiale, il triste epilogo con Spalletti – ma sceglie di affidarne la narrazione al punto di vista di Totti (il doc si intitola Mi chiamo Francesco Totti non a caso), che del film è anche voce narrante, quasi si trattasse di uno di quei commenti che si possono selezionare come extra nei dvd. Sembra una banalità, invece è una scelta radicale e potente, paradossalmente poco utilizzata nei documentari biografici e spesso in chiave postuma (si pensi al documentario Netflix su Miles Davis, Birth of the Cool, dove però la voce che recita le parole di Davis è quella di un attore).
Questo slittamento del punto di vista da narratore a narrato valorizza certo la verve comica del personaggio ma ancor più la sua trasparenza intellettuale, la sua assoluta assenza di vanagloria, anche nei momenti di pura autocelebrazione. Ed è qui che si compie la magia del cinema: ogni momento della vita di Totti, sullo schermo, diventa un’epifania privata, ovvero il Santo Graal dei film biografici. Eccola la seconda scaletta, quella che commuove: i genitori in tribuna, gli amici con la telecamera, il rapporto tenero e brutale con i tifosi, i primi appuntamenti con la futura moglie, la nascita dei figli, la contemplazione della città negata dalla fama («Sembra strano, ma Roma per me è in gran parte sconosciuta»). Qui, almeno a tratti, il film fa una specie di capriola diventando quasi cinema neorealista, e testimoniando tra l’altro perfettamente la mutazione del fenomeno calcio negli ultimi vent’anni, da espressione prettamente sociale a espressione prettamente capitalistica.
L’altra intuizione di Infascelli è quella di utilizzare senza timidezza il linguaggio del cinema romantico all’interno di un documentario, con il capolavoro di valorizzare un pezzo splendido e minore di Baglioni come commento all’epilogo: che la storia di Totti fosse una storia d’amore tra lui e la città non c’erano dubbi, ma che potesse diventare una storia d’amore a tutto tondo non era scontato. E invece i nostri ricordi di bambini che hanno sognato di diventare campioni e di tifosi che si addormentano con i gol in testa – ma anche di figli che contano sullo sguardo dei genitori e di innamorati che si sostengono nella quotidianità – è tutta compresa nei 100 minuti del film.
Totti è stato, certo, con pochi altri (direi Pirlo e Del Piero) l’epitome della generazione migliore del nostro calcio, quella che Baggio ha sfiorato prima di ritirarsi, e che ha trovato coronamento nella vittoria del Mondiale di Germania. E in questo senso è stato il campione di tutti. Ma è stato ed è, anche, un uomo fedele, un conservatore cocciuto, un padre e un compagno appassionato, un professionista dall’ostinazione imbattibile, una specie di mistico involontario, un tipo permaloso e un umorista istintivo. Baciato dal talento e dal destino.
E in questo senso, prima che un campione, è soprattutto una splendida storia.