Empire, stato del Nevada. Nel 1988 la fabbrica presso cui Fern e suo marito Bo hanno lavorato tutta la vita ha chiuso i battenti, lasciando i dipendenti letteralmente per strada. Anche Bo se ne è andato, dopo una lunga malattia, e ora il mondo di Fern si divide fra un garage in cui sono rinchiuse tutte le cose del marito e un van che la donna ha riempito di tutto ciò che ha ancora per lei un significato materico.
Racconta questa storia Nomadland, il lungometraggio che ha trionfato agli Oscar 2021 (miglior film, miglior regia a Chloé Zhao, seconda donna a vincere l’ambita statuetta in 93 edizioni degli Academy Awards, e miglior attrice a Frances McDormand, al terzo Oscar da protagonista). Siamo in un’America che potrebbe tranquillamente essere quella dei randagi di Jack Kerouac e dei rinnegati di John Steinbeck, eppure qualcosa è cambiato. Nel romanzo più celebre di quest’ultimo, Furore, Tom Joad (Henry Fonda), una volta uscito di prigione, raggiungeva la famiglia sfrattata e in partenza per la California, dove il sogno americano del protagonista finiva per l’infrangersi contro una muraglia invalicabile di sperequazioni sociali e ingiustizie.
Rispetto all’Oklahoma degli anni ’30 e a quegli Stati Uniti, in Nomadland questa partita è già persa in partenza, e forse non si è nemmeno scesi in campo. Amazon è un datore di lavoro (l’unico?) la cui superficie e struttura viene appena scalfita, soprattutto rispetto al libro d’inchiesta di Jessica Bruder Surviving America in The Twenty-First Century, da cui il film è tratto e che a tal proposito si concedeva pagine ben più affilate. Ma il punto, nel caso di Nomadland, è un altro: non la dispersione e il frazionamento della forza lavoro, ma la distanza etica tra l’individuo e il paesaggio frastagliato del mondo, che il delicato e pudico poema per immagini della Zhao prova a colmare con uno sguardo commosso ma tutt’altro che romantico. Dove il salario (della paura) è quello delle comunità minuscole e sempre in movimento, dei “nuovi nomadi”.
Un occhio alieno ma interno, potremmo definirlo, quello di questa cineasta piena di talento nata in Cina ma cresciuta artisticamente tra l’Inghilterra e gli USA. Allo stesso tempo dentro e fuori rispetto a quella land of opportunities che dopo un’opera seconda piccola ma apprezzatissima come The Rider l’ha portata a dirigere addirittura Eternals, il nuovo film della Marvel sui difensori della Terra creati da Jack Kirby. Nomadland, dal canto suo, rispecchia appieno questa scissione identitaria e industriale: è un film errabondo e sentimentale, arthouse nella composizione ma intimamente popolare nella vocazione, che si erge a elegia lirica sulle voci perdute d’America, sui nuovi invisibili, su quanti sono in cerca di un diritto d’asilo esistenziale ancor prima che professionale e fanno di questa solitudine una cartina di tornasole per i rimpianti della propria vita passata. Per provare a gettare le basi, anche quando minime e nebbiose, di un futuro senza certezze né paletti, di un american dream forse di segno opposto (da rivedere al ribasso) eppure sempre ancoratissimo alle radici profonde del paese.
La narrazione è giocoforza dinamica ma anche molto nitida, di una precisione che è insieme omaggio a coloro che mostra e porta sullo schermo (ci sono anche i veri nomadi Linda May, Swankie e Bob Wells), ma anche distacco costante, proprio come l’esordio della Zhao Songs My Brother Taught Me, confidenziale fin dal titolo e ambientato in una riserva del Dakota. La Fern di Frances McDormand, attrice specialista nei ritratti di donne americane che più archetipiche non si può, dalla Marge Gunderson di Fargo alla Mildred Hayes di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, vive di lavoretti episodici, non accede ai sussidi statali e soprattutto non ha più l’età per trovare qualcos’altro, per abitare un altrove. Di Tom Joad è rimasto a stento il fantasma lontano cantato da Bruce Springsteen e non a caso la musica di Ludovico Einaudi, di solito rischiosa sul piano dell’emozione telecomandata, viene invece usata, mirabilmente, per attutire, sfumare, sviare brani tradizionali americani eseguiti in scena.
Nomadland prova allora a edificarlo tutto intorno a lei, questo immenso spazio abitabile e a perdita d’occhio che non ha confini e come tale è un’arma a doppio taglio, scivolosa da maneggiare, complessa e contraddittoria proprio come il carattere della tenera e ruvida Fern, alla cui scorza la McDormand regala tutto il proprio carisma di anti-diva hollywoodiana per eccellenza. Questa donna, che si definisce houseless e non homeless, è in balia di se stessa, del mondo e di quello che non c’è. Eppure nel corso del film la sua auto-determinazione prende corpo («Mi piace lavorare, voglio lavorare», dice Fern nella sua battuta più bella) e diventa la nostra: la sua storia d’amore con uomo attempato, interpretato da David Stathairn, è fatta di piatti rotti (solo da lui, e per sbaglio), di quieta rassegnazione, di albe che si confondono ai tramonti, di una stagione imprecisata del viaggio della vita che è al contempo fine di qualcosa e inizio di non si sa cos’altro.
La promised land di Nomadland non è dunque più così promessa e fa mancare la terra sotto i piedi, così allineata ai nostri tempi incerti e forzati, tanto nelle posizioni a tutti costi estreme e/o concilianti quanto nei distanziamenti forzati: il nostro vicino è sempre altro da noi, gli addii non sono mai davvero addii e ritrovare l’altro equivale sempre ad andare in cerca di un pezzo di noi, soprattutto quando si viaggia verso Ovest com’è d’obbligo, secondo molti, quando si va alla ricerca di se stessi, in un road movie che coincide col più statico ma anche col più dinamico dei paesaggi interiori. No home, no Job (o quasi), no peace, no rest. La cartezza, in ogni caso, è sempre e soltanto una sola: ci si vede sulla strada.
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