Pisa, ai giorni nostri. Sono gli ultimi giorni di un gruppo di cinque studenti nell’appartamento che hanno condiviso per tutto il periodo degli studi. C’è il Cioni, il più naïf e sognatore del gruppo; Vincenzo, il più regolare, vulcanologo in procinto di trasferirsi in Islanda per diventare professore associato; la sua fidanzata Francesca, che non ha intenzione di sacrificare i suoi sogni di attrice coltivati nella compagnia teatrale amatoriale “I poveri illusi”, che tiene in piedi con il coinquilino Andrea, grande talento ma poca fortuna e una nostalgia/invidia marcia per la ex, Marta, che ha sfondato nel cinema. Infine, Ilaria, sessualità spinta che le causa una gravidanza indesiderata e tutti gli effetti collaterali del caso.
È un affresco generazionale con punte malinconico-nostalgiche da Grande freddo/miglior Virzì, specie quando i ragazzi fanno il loro consuntivo esistenziale o ricordano l’amico Michele morto in circostanze misteriose, ma rischiarato e alleggerito da momenti ludici che ben rendono l’atmosfera tipica di quello che per diversi anni è stato un “appartamento spagnolo”. Roan Johnson, al suo secondo film dopo I primi della lista, è molto abile a cogliere gli aspetti più realistici della convivenza universitaria: la “pasta al nulla”, i piatti lavati nella doccia quando il lavello è intasato, i calcoli per dividere le bollette, le preoccupazioni nei confronti del fantomatico amministratore, la piscinetta sul terrazzino panoramico. Non a caso il film nasce come documentario sulla realtà studentesca appaltato al regista dall’Università di Pisa.
È un lavoro corale, supportato dalla generosa e “garibaldina collaborazione degli attori”, come raccontano i titoli di testa dalla font fumettosa. È una post-adolescenza prolungata rappresentata da un gruppo di attori naturali e disinvolti, che recitano con i rispettivi accenti dialettali. È come se un incantesimo peterpanesco aleggiasse sul loro appartamento; come se l’affiatamento maturato negli anni li avesse mantenuti giovani fuori e dentro, specularmente a quanto succedeva con i loro corrispettivi newyorchesi Friends.
È un brusco risveglio il dover separarsi, attraversare la linea d’ombra che per tanti anni è stata continuamente spostata a sufficienza da non dover mai prendere decisioni che potessero spezzare l’incantesimo. Ora i nodi sono giunti al pettine: Cioni tornerà dai suoi, Vincenzo andrà in Islanda, Francesca non lo seguirà nella terra di nessuno, Ilaria tornerà in famiglia a Frosinone dove alleverà il suo bebé, mentre Andre si giocherà la carta dell’avventura in Nepal. Eppure, nonostante la maturità che incombe, il regista sfugge all’introspezione e preferisce giocarsi fino in fondo la carta della goliardia, con tanto di rocambolesco furto a casa del malevolo e taccagno “inseminatore” dell’Ilaria.
Come i suoi protagonisti, Johnson preferisce glissare sulle questioni spinose, come le vere ragioni dell’incidente/suicidio di Michele, quasi a voler simulare la costante rimozione messa in atto dai suoi protagonisti, ma rischia l’epidermicità narrativa. E, tuttavia, è così facile simpatizzare/empatizzare per questa scombinata banda di amici, che ha sostituito la famiglia di sangue con i camerati. Solo nell’incontro/confronto finale tra Andrea e Marta Johnson si concede un affondo melò, per poi rientrare subito in carreggiata e scivolare verso un finale surrealmente poetico, metafora di un perenne indugiare.
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Mi piace: il ritratto realistico del goliardico “appartamento pisano”. La recitazione naturale degli attori.
Non mi piace: una certa epidermicità nei confronti dei temi tosti.
Consigliato a chi: agli studenti universitari e ai nostalgici di quel periodo mitologico della vita.
VOTO: 3/5
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