La scritta in sovraimpressione “Una sconvolgente storia vera” non vi tragga in inganno. Non c’è nulla di puramente documentaristico o cronachistico in questo film che fa della rappresentazione mimetica un suo obiettivo dichiarato e un pregio (i personaggi assomigliano in modo impressionante agli originali). Dietro la macchina da presa c’è Bennett Miller e non c’è mai nulla di banale o scontato nel suo modo di dirigere (non a caso Premio per la regia al Festival di Cannes, dove il film è stato presentato in concorso) o nelle storie che sceglie, come dimostrano i precedenti Truman Capote – A sangue freddo e l’ingiustamente sottovalutato Moneyball – L’arte di vincere. Foxcatcher, suo terzo film, ne è la più riuscita conferma.
La vicenda che dà il via al racconto si svolge negli anni tra il 1988 e il 1996 in Pennsilvanya, periodo in cui il ricchissimo milionario John du Pont decise di investire alcune delle sue sostanze nella formazione di una squadra di lotta libera che fosse all’altezza di partecipare alle Olimpiadi di Seoul. John interpella per primo il campione Dave Schultz (Mark Ruffalo), ma incassato il rifiuto dell’atleta, si rivolge al fratello minore Mark (Channing Tatum), desideroso di emanciparsi dalla tutela di Dave, suo allenatore e unico famigliare rimastogli.
L’aristocratico filantropo du Pont farà costruire una palestra ad hoc per gli allenamenti e inviterà Mark a vivere in una depandance della Foxcatcher Farm, la dimora di famiglia (costruita su modello della villa palladiana di Thomas Jefferson), da cui il nome della squadra. Dave è un padre di famiglia con due figli, mentre Mark, di indole asociale e afflitto da una condizione economica precaria, abbraccerà subito la proposta del milionario in cerca di riscatto.
Entrambi, il ricco maturo e il giovane povero, incontrandosi hanno la sensazione di essere vicinissimi ad ottenere gli obiettivi delle loro vite. Uno vuole diventare il campione del mondo di lotta libera, l’altro desidera riempire la stanza dei trofei di famiglia con i riconoscimenti della propria squadra. Uno vuole trovare il padre che gli è sempre mancato, l’altro vorrebbe dimostrare il suo valore all’aristocratica madre (Vanessa Redgrave) che lo considera una nullità e reputa la lotta libera uno sport minore. Ma le tare emergono subito: John si definisce un patriota e qualcuno che tramite lo sport eleverà l’America, ma tradirà la sua missione da coach e mentore trascinando Mark in una spirale autodistruttiva, iniziandolo da subito alla cocaina.
C’è moltissimo nascosto sotto la crosta di questa tristissima storia di cronaca nera, che Miller sembra tratteggiare attingendo all’immaginario horror. La Foxcatcher Farm è così spettrale e sinistra – con quella recinzione da campo di concentramento che la circonda – e Carell, con quel naso da rapace, è una figura inquietante e mostruosa, che rivelerà passo dopo passo la sua follia.
Il regista è bravissimo nel costruire un thriller che – pur conoscendone l’esito – tiene sospesi per tutto il tempo. Vi riesce da una parte creando un’atmosfera disturbante e spettrale, dall’altra scavando a fondo nelle psicologie dei personaggi, facendone emergere i fantasmi. Du Pont è un viziatissimo rampollo che soffre a livelli patologici del complesso d’inferiorità nei confronti della matriarca ed è abituato ad acquistare l’affetto degli altri col denaro, manipolandoli; Mark, invece, è un ragazzo fragile, abbandonato a due anni dai genitori e in cerca di una figura paterna, motivi per i quali i due finiranno per sviluppare un rapporto morboso e ossessivo, di cui gli abbracci da lotta libera diventano metafora. Tra questi due opposti si piazza Dave: principi solidi, disciplina sportiva tostissima, amore devoto per la famiglia, tutti valori che non baratterebbe per denaro. Un uomo puro e quasi d’altri tempi che, come tale, pagherà le conseguenze peggiori per aver deciso di proteggere il fratello.
Foxcatcher, il cui nome rimanda all’aristocratica caccia alla volpe mostrata nelle prime inquadrature, è una robusta parabola sull’America moderna tramite lo sport, l’emblema di un Paese con deliri di onnipotenza che crede di poter acquistare tutto (anche l’amore) col denaro, e dove si trova sempre chi è disposto a vendersi. Ma anche una rappresentazione della famiglia – supportata da attori bravissimi (Carell e Ruffalo sono stati nominati agli Oscar) – come inferno personale che genera comportamenti psicotici e nevrosi o che intrappola con i sensi di colpa. E da a cui nessuno trova scampo.
Leggi la trama e guarda il film
Mi piace: lo sport usato come metafora di altro. Le interpretazioni intense dei tre protagonisti. Le suggestioni horror a livello estetico.
Non mi piace: i limiti (pochi, a dire il vero) determinati dal raccontare una storia vera.
Consigliato a chi: ama la suspense e le grande prove attoriali.
VOTO: 4/5
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