“Fuocoammare” (2016) è il quarto lungometraggio del regista Gianfranco Rosi.
Il cinema è distante, un bambino può stare vicino a ciò che vede male, la ripresa s’aggrappa al reale avvolgendolo, l’occhio ‘pigro’ di Samuele, quello che non gli serve per colpire con la fionda, è l’occhio di noi, comuni uomini lontani da Lampedusa fisicamente e non solo.
Un occhio discreto e poco da consumare quello del regista che si avvicina all’isola con una parsimonia limpida e priva di qualsiasi didascalico linguaggio: anzi il dire è poco con un sottotitolato intimorito e lontano per dei personaggi che interpretano se stessi. E mentre Lampedusa impara sempre a stare sopra le barche perché è il mestiere del pescatore che rende vigoria all’isola ecco che dei bambini girovagano sul piccolo suolo per rendere il silenzio quantomeno vigoroso.
E l’approccio come l’andatura limpida e scevra di ogni gioco forviante al reale lasciano un racconto di fedeltà mansueta e di una vita semplice: il nostro guardare è di non toccare nulla ma le immagini di arrivano cambiamo gli schemi ordinari e l’uomo interviene in ogni momento. E l’apatia è rivolta a chi non vuole ben vedere: indolenza e inerzia di un paese e oltre che sta lì distante verso un’isola solerte e operosa nell’aiuto.
Fuoco-a-mare quando c’era la guerra racconta la nonna al nipote in un giorno dei tanti con il tempo brutto e i tuoni sempre più forti. E sono i rumori dall’alto che aspirano i vuoti di
‘Quando il nonno tornava a riva con la barca gli portavo il pane’, ‘usciva di giorno perché di notte aveva paura’. Perché senza pesca c’è poco da lavorare e il cibo diventa scarso in una isola di venti chilometri quadrati (come si ricorda nelle brevi righe introduttive al docu-film).
Un bambino, una nonna, uno zio, un uomo in radio, un medico e altri che girano Lampedusa con i loro giochi, le loro faccende, i loro racconti, i loro lavori e i loro aiuti verso gli ospiti inattesi. Una vita semplice mentre si parla della vita del pescatore, di una dedica speciale, di un primo da preparare, di un letto da rifare, di una fionda da usare, di giochi da inventare mentre un sub vede la vita del mare e ‘ospiti’ che sono spenti.
Occhio da bendare per far lavorare il più stanco, quasi che non avesse mai voglia di vedere il largo di un mare che porta barconi ripieni e ricolmi di speranza, ma pieni e ricolmi di sangue perso e di morti dispersi nelle acque salate di un ‘nostrum’ azzerato di desiderio vitale.
Come un destino segnato e la macchina da presa del regista è lì senza essere mai invadente e ci fa contemplare (con voci reali e suoni diretti) il mondo di un’isola che è fra il mondo che poco conosciamo e la Sicilia (distante duecento chilometri).
Opera di attesa e distaccata che ci fa avvicinare con grazia e delicatezza al rumore sordo di uomini in canto disperato, di una partita di pallone con una Siria vincente e polveri di terre da ricordare strenuamente.
Un realismo (e/o effetto di una vita pura e realista) di visibilità rarefatta, calmo, inerte e, parimenti, privo di retorica: la ripresa di Gianfranco Rosi è di fondo, lunga e leggera; si antepone al nostro sguardo quando le morti sono in prima fila e gli uomini vestiti di bianco sono scheletri-umani di fronte alla morte coperta e avvolta. Il cielo è sempre coperto, le nuvole sono minacciose, i colori sono foschi e l’acqua azzurra accarezza i volti degli arrivi con le storie minime dei lampedusani. Il Sole arriva poco e fioco per un occhio pigro che cerca di vedere. E’ Samuele ci ricorda che gli ‘arrivi’ non si fermano come le morti. Titoli di coda sinceri e dimessi (con soffusa musica di fuocoammare).
Voto: 7½.