Fury: la recensione di loland10
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Fury: la recensione di loland10

Fury: la recensione di loland10

“Fury” (id., 2014) è il quinto lungometraggio del regista dell’Illinois David Ayer.

Un film sulla guerra per finirla, un film sul declino dell’uomo per distruggerlo, un film sul carro armato per difenderlo e un film sul comando per sentirlo (sempre).

“Cazzo”, “Hai preso quel bastardo…?”. Le prime cinque parole cinque dicono già quel che viene e chiarisce, da subito, i pregi (non molti) e i limiti (parecchi) della pellicola (che mestieri-zza ‘il lavoro più bello del mondo’).

Innanzitutto (a scanso di equivoci) ne ricorderemo l’incipit (a metà film) del dialogo donne soldati e del cambio di passo di qualcuno durante un cena di uova caloriche e di giovani in orgasmo (fetale). Lì parte un rilento racconto dove la retorica (nascosta e vitale) espropria il senso di ogni virulento discorso per manifestarsi all’incrocio di una strada al di là di una campagna tedesca finita (e sfinita) nel tritume di una guerra dove l’abisso è già dentro la paura di ognuno.

David Ayer propone un ‘guerra’ con il sottofondo classico e con aggiornamenti, più o meno riusciti, sporcati da altre pellicole: tutto senza dare un costrutto veramente personale e rischiando di deragliare vuoi per la sceneggiatura debole, vuoi per il passo molto trattenuto e vuoi per i personaggi che si sentono forti in una debolezza narrativa deviando verso l’implosione generale. Si deve dire che il silenzio domina rispetto a quello che attendi e il linguaggio sopperisce ad un’avanzata di carri tra macerie, campagne e alberi con nascondimenti vari. Paesi e strade, vie e richiami, ordini e senso comune. Vita e morte come sempre.

Il look vintage e la kermesse dei vari sguardi adombrano un’interiorità non sempre espressa e l’intenzione di qualcosa di sottrattivo, ora è compiaciuta e ora s’arena in un gioco dei vari ‘militari’ che abbiamo già sentito e calcato con mano. Il respiro diventa insapore appena la guerra s’avvicina con puntate a raffica e pallottole da ‘semina’ verso il nemico nazista visibile e invisibile. E il lato di una maschera facciale ‘macchiata’ e ‘infangata’ in modo giusto con un senso di inadeguatezza dell’uomo in posa sul set. Basta togliersi di dosso ciò che non serve e qualche ‘unto’ di troppo (ecco a che cosa serve il lavaggio della testa e dei propri capelli, vero sergente Collier…) e siamo pronti a donarci per la patria e a difendere l’improponibile punto di riferimento e lo spartiacque narrativo diventa una corroborante (e presuntuosa) insolvenza di corpi in fila, di notturno infuocato e di sangue costante: è la fuga dal ‘mostro’ di difesa genera una retata di spari senza sosta contro il nemico nazista ammazzato per la ‘gloria’ dell’ultimo rimasto.

‘Sei un eroe’: Norman si ritrova sotto il carro ‘Fury’ a ripararsi e aspettare che termini il tutto. Il sergente ne ordina l’uscita. E l’eroe viene rutrovato dagli ‘amici’ alla fine della estenuante guerra in terra tedesca. Fury come macchia e stop del proprio destino: uomo dentro e nemico fuori, attesa dormiente e pallottole saettanti. Le case e le dimore trovano un tempo breve. Ciò che salva è la terra che ci copre, è la morte che s’annida e il silenzio di Fury. Ricordando certi schemi già visti in ‘Lebanon’ (id., 2009) di Samuel Maoz: la vita e la guerra vista all’interno di un carro armato; e inoltre i passi (aggiornati) di ‘Salvate il soldato Ryan’ (Saving Private Ryan, 1998) di Steven Spielberg nel contatto fisico con il nemico mentre il senso bellico dell’ultima pallottola (e unica) ridà il verso a pellicole di cecchini e artificieri di vario tipo (basti pensare a ‘The Hurt Locker’ –id., 2008- di Kathryn Bigelow per non andare indietro nella filmografia bellica statunitense più o meno recente).

E l’aprile 1945 in terra nemica (Germania nazista) trasforma questo film in una storia disunita e prettamente incentrata sui volti che rimangono (non per quello che fanno) per le poche cose che riescono a dire in mezzo al marciume di un fioccare di polveri e spari. L’eroismo è solo dietro un mezzo di soccorso che sta andando via: e le lacrime non versate riescono a dare un finale (abbastanza) in riga. Il senso retorico (seppure allontanato) è ricolmo in ogni acchito e mansione narrativa anche (e soprattutto) il nemico tedesco (Irma) cerca innamoramento presso chi vuole diventare grande. ‘Ne troverai altre’ grida il sergente al giovane ragazzo quando una bomba distrugge casa e vede la morte di lei.

Si deve dire che gli attori fanno del loro meglio e Brad Pitt (Don Collier) riesce a farsi rubare la scena da Shia LaBeouf (Boyd Swan) e da Logan Lerman (Norman Ellison). Entrambi convincenti e molto in parte. Colonna sonora di impatto costruita dal premio Oscar (per ‘Gravity’) Steven Price; da menzionare la fotografia di Roman Vasyanov; titoli di coda su foto e immagini del conflitto con colorazione rossastra (adombrati dal titolo del film di Samul Fuller, ‘The Big Red One’, 1980).
La regia di David Ayer non riesce a costruire una tensione e un pathos narrativo che avrebbero dovuto essere il ‘centro’ del film. Non è epico e sommariamente giusto per essere visto.
Voto: 6½ (quando gli attori, non tutti, superano la prova per ricordarli).

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