Ghost in the Shell: la recensione di aleotto83
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Ghost in the Shell: la recensione di aleotto83

Ghost in the Shell: la recensione di aleotto83

“Non è il tuo passato a definire chi sei, ma le tue azioni” Major

Premessa generale: non sono un fan di manga e anime, non ho letto il fumetto originale “Ghost in the Shell” di Masamune Shirow del 1989 né guardato la trasposizione a cartoni animati del 1995 di
Mamoru Oshii, che so essere seconda soltanto ad “Akira” quanto a livello qualitativo.
Per cui, se alla lettura di questo pezzo c’è qualche purista irriducibile mi scuso in anticipo, ma mi limiterò a commentare il film poliziesco/fantascientifico del 2017, sapendolo però ispirato ad un grande materiale d’origine.
Grazie ai diritti di sfruttamento che può vantare, la pellicola di Rupert Sanders ha uno stile estetico unico, affascinante e sensuale, un trama tosta ed appassionante, anche se è facilmente intuibile la massiccia semplificazione dei concetti profondi che riempivano di significati filosofici (ed un po’ frustranti) le trasposizioni “made in Japan”.

In una megalopoli futuristica, il maggiore Mira Killian della forza di polizia “Sezione 9” è in realtà un sofisticato cyborg, il primo del suo genere, che unisce un cervello umano a tessuti completamente sintetici.
In un mondo in cui tutti gli uomini posso “ripararsi” e migliorarsi grazie ad innesti tecnologici (arti meccanici, telecamere al posto degli occhi), il maggiore è un’arma micidiale perché praticamente invulnerabile, fisicamente fortissima e può mimetizzarsi fino a rendersi invisibile.
Al soldo della mega-compagnia Hanka Robotics che l’ha creata, Mira e i colleghi della “Sezione 9”
sono sulle tracce del cyberterrorista Kuze che hackera le menti umane collegate in rete per rubarne le informazioni e sembra disposto a tutto pur di raggiungere proprio la poliziotta replicante.
Lei stessa si troverà confusa, affetta da visioni che non può più considerare solo errori di scrittura del proprio software, e a dubitare della verità sul proprio passato che le è stata raccontata da chi la circonda.

Dalla trama si può facilmente capire il taglio cyberpunk della storia, che fonde elementi noir classici alla fantascienza più immaginifica, e che ha profondamente influenzato fumetti, cartoni e videogames durante tutti gli anni ’90 fino ad avere nella trilogia di “Matrix”, e nei suoi derivati, la sintesi più famosa.
Tutta la faccenda del cervello/anima/ghost inserito, per ragioni di sopravvivenza, all’interno di un organismo cibernetico (shell, letteralmente guscio, involucro) la pratichiamo almeno dai tempi di “Robocop” e simili, compresi i vari dilemmi morali, le domande su dove finisce l’umano e inizia la macchina ed infine la memoria rimossa dell’essere vivente, che si libera dalle barriere di silicio e pian piano riaffiora.
A livello tecnico i corpi dei cyborg sono splendidi, eleganti e sinuosi, così come tutti gli effetti speciali del film che si intrecciano perfettamente al girato dal vero; il nude look della protagonista, che si toglie l’impermeabile prima di gettarsi all’inseguimento dei criminali, è un retaggio della malizia giapponese che abbiamo imparato a conoscere persino dai cartoni dell’infanzia.

Come gli archetipi del cinema sci-fi, nemmeno altri aspetti della trama di “Ghost in the Shell” sono inediti: le bugie dei potenti, occupati a mantenere il controllo, contro la lealtà genuina tra colleghi poliziotti (è splendido il rapporto affettuoso tra la dura Major e l’ironico sergente Batou), e non ultima la minaccia fantasma che rivela più di un significato nascosto, fino a ribaltare le carte in tavola.
In un tale concentrato di influenze è facile che il senso di “già visto” tenda a prevalere ad un certo punto, ma a mio parere il film mette da parte le pretese più concettuali, per concentrarsi sull’azione e regalarci un’ora e quaranta di buon intrattenimento.

L’altro dibattito che mi appassiona pochissimo legato al nuovo “Ghost in the Shell” è il tanto sbandierato whitewashing dei protagonisti, ovvero il fatto di ingaggiare attori occidentali per ruoli chiaramente orientali; nonostante il taglio di capelli da giapponesina, la Johansson non prova nemmeno per un istante a fingersi ciò che non è: infatti l’aspetto dei cyborg non ricalca in alcun modo gli esseri umani di cui ospitano il cervello, e la genesi di un personaggio che in origine si chiamava Tomoko Kusanagi qui è spiegata in maniera alternativa.
Può darsi che trovare attori americani nei due ruoli centrali non sia ciò che i fan sognavano, ma c’è da dire che Scarlett Johansson è semplicemente perfetta per la parte della tosta “Major”, non per niente è l’attrice più famosa al mondo, e anche la scelta di mettere un attore defilato come Michael Pitt nel ruolo del “cattivo” in una mega-produzione come questa è quantomeno affascinante.

Filmato principalmente in studio a Wellington, la nuova Hollywood neozelandese, ma con esterni girati a Hong Kong, questo film americano di casa Dreamworks si avvale della sempre più comune collaborazione di un colosso cinese e, nonostante un look produttivo un po’ freddino, non sa di finto come il recente “Assassin’s Creed”.
Oltre ai già citati protagonisti, la pellicola si avvale di un cast di alto livello, con la raffinata Juliette Binoche, sempre più a proprio agio nel genere blockbuster, fino al mitico Takeshi Kitano nei panni del saggio capo della polizia speciale.
Una delle scene più belle del film, oltre a quella del delicato incontro della protagonista con la madre, è proprio l’omaggio agli “Yakuza movie” con Kitano che si vendica in modo spietato dei criminali che volevano tendergli un agguato mortale.

Il regista inglese Rupert Sanders viene dal mondo della pubblicità, erano suoi i bellissimi spot del videogioco “Halo”, e con questo film è al secondo lungometraggio dopo il non memorabile “Biancaneve e il Cacciatore”.
Fino ad oggi è conosciuto più per il gossip di aver tradito la moglie con Kristen Stewart che per meriti artistici, ma dopo “Ghost in the Shell” potrebbe iniziare a farsi strada tra i registi bravi.
I contenuti originali del suo film potranno essere pochi, ma il buon uso del materiale d’origine supplisce al senso di già visto e le immagini che sa evocare sono molto potenti, una su tutte la città orientale invasa da pubblicità olografiche gigantesche e stimoli visivi che riempono ogni spazio, agendo in modo straniante sui sensi dello spettatore, che vede esseri umani modificati sinteticamente intrecciare i propri destini lungo le sue strade.

CI E’ PIACIUTO: l’atmosfera da film poliziesco in un contesto rumorosamente futuristico, il cast stellare e soprattutto la tostissima Scarlett, alle prese con un altra eroina dura fuori e fragile dentro dopo la “Vedova Nera” di casa Marvel, l’aliena di “Under The Skin” e soprattutto della super-evoluta “Lucy” di Luc Besson.

NON CI E’ PIACIUTO: la freddezza di alcuni passaggi e la poca profondità rispetto alle tematiche del manga d’origine.

SE VI E’ PIACIUTO: è il caso che andiate quindi a recuperarvi la trasposizione a cartoni animati del 1995, ma ci sta anche un ripasso del capolavoro “Blade Runner” di Ridley Scott per affinità di tematiche e ambientazioni.

UNA CURIOSITA’: quando nel 2010 la Dreamworks ha acquisito diritti del famoso manga, il film doveva dirigerlo nientemeno che Steven Spielberg, che ha poi rinnciato in favore di altri progetti e ha poi ha chiamato Sanders a sostituirlo.
Per quanto riguarda la protagonista la prima scelta era ricaduta sulla nuova diva Margot Robbie, poi rimpiazzata egregiamente dalla versatile Johansson.
Curiosamente, nei titoli di testa e di coda, gli attori Pitt e Kitano sono accreditati come “Michael Carmen Pitt” e “Beat Takeshi Kitano”, completi di secondo nome l’uno e pseudonimo l’altro.

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