“Gli anni più belli” (2020) è il dodicesimo lungometraggio del regista-sceneggiatore romano Gabriele Muccino.
Il cinema italiano attorno e dopo il cine-panettonismo vario si arieggia di un muccinismo story.
Un film dove il racconto serpeggia e fa ala al corso storico aderente ad una vita forte, intensa, grama e romana. Ecco che il trambusto del dopo ‘mundial’ (1982) fa perdere verginità e ogni via maestra (ancora da venire la ‘finta’ goduria degli anni ottanta): i ragazzi ballano ancora col yuke-box e le ‘canzonette’ instradavano la vita non ‘più dolce’ di felliniana memoria. Tra le strade romane (di lotte politiche, scontri e feriti) inizia un’amicizia che dura quarant’anni.
Giulio, Gemma, Paolo e Riccardo adolescenti e amici. Tra un sopravvissuto (Riccardo), un sognatore (Paolo), un testardo (Giulio) e una ‘bimba’ (Gemma) che crede troppo nell’amore si instaurano episodi e storie gravi, dolci, pesanti e timide. Aspirazioni, successi e miserie nelle loro vite attraverso immagini di storia (sempre da immagini tv): la Caduta del Muro di Berlino, la discesa in campo del Cavaliere, l’undici settembre delle Torri Gemelle e le dimostranze di nuovi movimenti.
Il piattume è nel ‘darla senza remora’ come una ‘zoccola’. Ecco che il bivio è facile o la vita non serve viverla. “Brindiamo alle cose che ci piacciono”. Il film inizia con degli scoppi di Capodanno e brindisi a iosa, poi si conclude sempre con un bicchiere di vino. Tutto si aggiusta o quasi, Il ‘fuori onda’ (meglio il fuori-film) durante i titoli di coda appare inutilmente posticcio o meglio accomodante ancora di più.
Alla fine, purtroppo una storia italiana, dove entrano molti difetti dell’italico popolo e dello scialo modo dei ragazzacci romani che vogliono vivacchiare fortemente parafrasando in tono da zombie la dolce vita finita. Da un pezzo.
‘Manca Mastroianni’ dice Paolo. Appunto manca il top di ieri e di un cero acume intellettivo e di aplomb registico forte. O meglio, dicendolo in senso affettivo, fatti una ragione di vita per il cinema di oggi che arriva a questo bivio.
Il film riecheggia il mondo di ‘C’eravamo tanto amati’ (1974, di Ettore Scola), in tendenza colorata, accalcata, posticcia, bonaria e fottuta; fa pensare, illudere, irritare e commuovere. Ecco il cinema di Muccino esalta la ‘gente’ senza nessun scopo (di Monicelli solo gli umori), li lavora, li veste, li schiaffeggia e gli gira attorno per farceli salutare. Un cinema corposo e pieno di sudori e di corse: eccesso degli spazi,
Il mondo mucciniano è fermo in questi paletti e (nonostante alcune pieghe) riesce ad avere un suo piglio con una regia corposamente attenta e sinuosamente aderente ai corpi. Viva e mai dormiente. Tra un’eccitazione giovanile, un amore salutare e un ritorno d’amicizia (con una stazione di passaggi).
Eccessi e finezze, posticci e soavità vanno di pari passo. Alcune sequenze sono segno di pensare in grande. Altre sembrano andare a vuoto. O forse è la storia che si racconta che è piena falsamente..
Primo passo: il rivolgersi a noi è il timbro di Ettore Scola. Secondo passo: lo sciabordare degli amici senza scopo è quello monicelliano; Terzo passo: gli interni e le visualizza oblique sembrano risiane. Quarto passo: il tono di sottofondo continuo musicale rifà il verso ad un puzzle-cartoon; Quinto passo: la colonna sonora annulla vuoti e intensifica oltre il dovuto il cerchio di una vita lieve è amara. Sesto passo: il livore, lo scontro non arriva mai alle amarezze acri di commedie d’annata.
Ecco che il settimo passo è mucciniano un cinema suo al quadrato con colori, immagini e fotografia che decantano il movimento di camera. Un cinema ardimentoso dove il controllo sembra partire e andare fuori ordine. Appositamente con ‘romanità’ vigorosa. Una sceneggiatura di oggi (dove la provincia do Pietro Germi viene sfiorata).
Il ritorno di Giulio alla sua casa di nascita, povera con un piccolino Carletto che sembra il disperato perenne di oggi, appare un qualcosa di inutile. Come lo scontro con ‘sopravvissuto’ (Riccardo) dopo la sequenza della fontana di Trevi e Paolo che parte in auto. O meglio sai già quello che potrebbe succedere.
La parte finale ha un merito con una sequenza e un montaggio di campo e controcampo (tra un ristorante e le scale di un vecchio palazzo, tra amici e Paolo, tra un tornare e un abbraccio).
La trattoria romana e la prima bottiglia; la seconda bottiglia; forse l’ultima bottiglia nel chiamare l’oste. La corsa di Gemma e Paolo che aspetta. Una scena doppia tra un inizio e una fine.
Ecco che Muccino sa bene il mestiere, sa inquadrare, sa prendere le parti. La sua cattiveria è nel mostrarci la superficie perché sotto c’è il marciume. Un hollywoodiano a Trastevere. Ecco quello che Riccardo vorrebbe dire come critico che il film in cui recita è bellissimo. Parafrasando il Romano de’Trevi’.
Pierfrancesco Favino (Giulio), Kim Rossi Stuart (Paolo), Claudio Santamaria (Riccardo) e Micaela Ramazzotti (Gemma) recitano di schianto e di impulso, senza pause e colori sbiaditi. Il loro film è la presenza costante di voci, movimenti e urla. Con canzoni varie che ‘fanno da corsa’ per tutta pellicola. Da ‘Just an Illusion’ (Imagination) ‘Don’t you -forget about me-‘ (Simple Minds –e viene in mente ‘The Breakfast Club’, 1985, aperto e chiuso da questo famoso ‘titolo’-), da Bennato a Baglioni.
Regia: volitiva, intensa, boriosa e ritmata.
Voto: 6½/10 (***) -cinema apripista-