Era il 1954, quando Ishiro Honda, incarnando le paure post-belliche e post-atomiche del popolo giapponese, portò sul grande schermo Gojira, titanico predatore preistorico, sopravvissuto all’estinzione e ingigantitosi spropositatamente a causa delle radiazioni scatenate dai test nucleari nel pacifico. Il film rappresentava un chiaro intento critico riguardo l’uso dell’atomica da parte degli americani, l’impatto ambientale negativo che scatenò e le ripercussioni etiche che ne susseguirono. Se però è vero che il messaggio arrivò forte è chiaro tramite Gojira (americanizzato in Godzilla), è altrettanto vero che dopo quella prima pellicola, ormai storica, ne arrivarono molte altre (circa 28 targate Giappone) nelle quali le paure post-atomiche c’entravano reltivamente, iniziando a sfruttare la creatura come meglio si poteva; così, a volte nemico a volte salvatore dell’umanità, Godzilla ebbe una lunga vita di battaglie cinematografiche contro i famigerati Kaiju Eiga, mostri alieni già riportati in auge l’anno scorso dal roboante Pacific Rim di Guillermo Del Toro. Godzilla era diventato il simbolo cult dei monster-movie, il mostro per eccellenza, il più grande di tutti, il più amato e il più temuto. Almeno fino al 1995. Dopo quella data, poi, non ebbe una vera e propria caduta nell’oblio, almeno nella sua terra natale, il Giappone, ma all’estero pian piano il mito sfumava. Fu così che nel 1998, il catastrofista Roland Emmerich si propose per mettersi alla guida di un remake made in U.S.A, dirigendo una sua versione del Re dei mostri, modificandone completamente la struttura corporea e trasportandolo di peso a New York. Emmerich cavalcò l’onda del successo “Jurassic Park”, e mutò le sembianze di Godzilla in quelle di un lucertolone troppo cresciuto, affiancandogli inoltre dei figli paurosamente somiglianti a dei Velociraptor.
Il remake subì una serie infinita di critiche, e dal 1998 ad oggi Godzilla scomparve dai grandi schermi.
Poi arrivò Gareth Edwards.
Fattosi conoscere a livello internazionale per il monster-movie a basso budget “Monsters”, Edwards si è rivelato la carta vincente per riportare al cinema il mito di Godzilla, rimanendo strettamente legato all’originale pellicola del ’94 e aggiungendo un tocco personale e decisamente più azzeccato di quello usato da Emmerich. Questo reboot è visivamente spettacolare, crepuscolare e maestoso, tanto freddo nella bellissima fotografia quanto sensazionale nelle immense scenografie. L’occhio del regista è sempre attento nel ricercare la giusta inquadratura, quella che può far giocare lo spettatore al vedo non vedo con la creatura oppure diversamente creare suspance durante una ricognizione notturna, il tutto accompagnato dalla potente colonna sonora firmata Alexander Desplat. Si capisce subito, dai bellissimi titoli di testa, che dietro a tutto c’è una mano esperta in questo tipo di film, non con un particolare taglio autoriale o quant’altro, ma una mano che sa quando e dove muoversi per dare spettacolo, garantito anche e soprattutto dai combattimenti tra Godzilla e i Kaiju, o meglio M.U.T.O. (Massive Unidentified Terrestrial Organism), purtroppo, però, pochi, anche meno di quelli presenti nel già citato Pacific Rim.
Edwards, infatti, ha scelto di raccontare la storia del Re dei mostri con un taglio più introspettivo e personale, quindi puntando più sui personaggi, sui loro “demoni” e le loro paure, che sull’effettiva grandiosità del mastodontico predatore preistorico. Godzilla e i M.U.T.O sono contemporaneamente fattori scatenanti gli avvenimenti della trama che sfondo alla pellicola. La distruzione viene mostrata, ma poco vissuta dallo spettatore, costretto a seguire personaggi con i quali non creerà empatia e ascoltare dialoghi che a volte sfoceranno nel noioso e nell’inconsistente, come le ripetizioni continue da parte dello scienziato interpretato da un Ken Watanabe che si, funziona, ma risulta alquanto sprecato.
Il fatto però, in sintesi, è questo: un regista attento, dirigendo un grande mostro in un grande set, può fare un grande blockbuster? A quanto pare non basta, dato che al servizio di un buon occhio e di un “realismo dark” dovrebbe esserci anche una buona sceneggiatura, cosa che a questo Godzilla manca, mancando con essa anche dei buoni personaggi, escluso forse il sempre bravo Bryan Cranston nei panni dello scienziato Joseph Brody, padre del protagonista Ford Brod, nei cui panni troviamo Aaron Taylor Johnson. Un vero peccato, anche a fronte del fatto che alla sceneggiatura troviamo Frank Darabont, sceneggiatore della serie televisiva The Walking Dead e de Il Miglior Verde, uno che di personaggi e demoni insomma se ne intende.
Per concludere, Godzilla torna al cinema rispolverando le antiche vesti nipponiche, regalando uno spettacolo visivo di primo livello, da vero blockbuster americano, ma lasciando privo di spessore il resto, sceneggiatura in primis, cosa che non sorprenderebbe se si fosse puntato più sul primo aspetto che sul secondo. Eppure rimane comunque un film da vedere, perché anche se di anima ce n’è poca, di corpo ce n’è in abbondanza.
100 metri e 60.000 tonnellate d’abbondanza di nome Godzilla.
Voto: 7/10
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