Birmania, 1917. Edward (Gonçalo Waddington), un funzionario dell’Impero britannico di stanza a Rangoon, fugge dalla fidanzata Molly (Crista Alfaiate) il giorno in cui lei arriva per il loro matrimonio. Nel corso del viaggio i suoi sentimenti di frustrazione e desiderio di fuga lasceranno il posto alla contemplazione e alla nostalgia, tra momenti di spaesamento e misteriose epifanie, mentre Molly è ancora in cerca dell’amato in un viaggio attraverso l’Asia…
Il cinema di Miguel Gomes somiglia al lavoro di un alchimista: nella commistione e nel setaccio di materiali eterogenei, esplorati in chiave tanto fisica quanto meditativa e metafisica, questo regista portoghese ragiona su elementi primordiali della visione e dell’immagine, che trovano nell’assemblaggio di suggestioni una carica ipnotica e sensoriale ben tangibile, coccolando una stasi che non è mai immobilità ma puntuale pretesto per avventurarsi in terre impervie e sconosciute.
In Grand Tour, presentato in Concorso al 77esimo Festival di Cannes, Gomes parte da una ruota panoramica con due traiettorie che alla fine girano a vuoto, un po’ come quelle dei due protagonisti, Edward e Molly, delineando immediatamente il fatalismo senza bussola e fuori da ogni rigor di logica delle loro traiettorie esistenziali. Ciò che segue è innanzitutto un gioco – di stili, forme, alternanza di colore e bianco e nero, tentativi di film possibili – tenuto insieme da meravigliose riprese in 16 mm e azzardi meta-narrativi che sono ludici anche quando appaiono serissimi.
Il cineasta di Tabu e Le mille e una notte – Arabian Nights si è dovuto confrontare in questo caso con i limiti imposti alla produzione dalla pandemia, col Covid che ha bloccato la troupe in uno studio a Lisbona col set cinese del lungometraggio situato a 3500 km di distanza, fra Shanghaie la provincia del Sichuan (sono stati utilizzati anche i set di Cinecittà, coi teatri di posa aricreare soffusamente il passato in discontinuità con gli squarci più caotici del presente). La sensazione è che tale ostacolo sia stato risolto muovendosi ancora di più in direzione di un’ecletticità e di una frammentarietà che determinano le varie piste e tracce del racconto, scandendone tanto i momenti più strampalati e surreali quanto quelli più lirici e addirittura spirituali.
Quello di Grand Tour è dunque un altro esperimento di un autore ormai abituato a una metodica da rabdomante, che usa la narrazione come mosaico polifonico ma anche come infinito serbatoio di squarci preziosi attraverso i quali lasciare emergere la propria poetica. In questo caso, in un percorso che attraversa diversi paesi asiatici, dal Giappone alle Filippine passando per Cina, Thailandia e Vietnam, il respiro della riflessione sugli strascichi del colonialismo dell’Oriente è il convitato di pietra che tiene insieme tutto, come controcampo filosofico e morale delle immagini mostrate, ma è soprattutto il dispositivo narratologico e ciò che ne deriva a guidare lo sguardo di Gomes e le sue direzioni e bisettrici.
Grand Tour, a conti fatti, è un film in cui il senso si arrende al cospetto delle infinite possibilità che derivano dall’accettare l’impossibilità di comprensione umana – e occidentale in particolare – rispetto a certi misteri esoterici e insondabili che abitano la cultura orientale. In questa resa c’è una dichiarazione d’intenti liberatoria, che si abbandona a momenti di cinema purissimo (l’esecuzione di My Way di Frank Sinatra in un locale, tra le sequenze più belle, stranianti e magnetiche di tutta Cannes 77, ma anche il valzer Sul bel Danubio Blu di Johann Strauss piazzato tra le strade di Saigon) e a una zona d’ombra rigenerante tra la malinconia attonita e la vitalità comica e strampalata (la peculiarissima risata di Molly è decisamente indimenticabile).
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