Grand Tour: l’affascinante viaggio asiatico di Miguel Gomes. La recensione
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Grand Tour: l’affascinante viaggio asiatico di Miguel Gomes. La recensione

Il regista portoghese di Tabu e Le mille e una notte - Arabian Nights, vincitore della Palma alla miglior regia all'ultimo Festival di Cannes, arriva nelle sale italiane con la sua nuova opera, che tocca diversi paesi orientali, tra spettri di un passato coloniale e frammenti di un presente incerto e caotico

Grand Tour: l’affascinante viaggio asiatico di Miguel Gomes. La recensione

Il regista portoghese di Tabu e Le mille e una notte - Arabian Nights, vincitore della Palma alla miglior regia all'ultimo Festival di Cannes, arriva nelle sale italiane con la sua nuova opera, che tocca diversi paesi orientali, tra spettri di un passato coloniale e frammenti di un presente incerto e caotico

Grand Tour Miguel Gomes recensione Cannes 77
PANORAMICA
Regia
Sceneggiatura
Interpretazioni
Fotografia
Montaggio
Colonna sonora

Birmania, 1917. Edward (Gonçalo Waddington), un funzionario dell’Impero britannico di stanza a Rangoon, fugge dalla fidanzata Molly (Crista Alfaiate) il giorno in cui lei arriva per il loro matrimonio.  Nel corso del viaggio i suoi sentimenti di frustrazione e desiderio di fuga lasceranno il posto alla contemplazione e alla nostalgia, tra momenti di spaesamento e misteriose epifanie, mentre Molly è ancora in cerca dell’amato in un viaggio attraverso l’Asia…

Il cinema di Miguel Gomes somiglia al lavoro di un alchimista: nella commistione e nel setaccio di materiali eterogenei, esplorati in chiave tanto fisica quanto meditativa e metafisica, questo regista portoghese ragiona su elementi primordiali della visione e dell’immagine, che trovano nell’assemblaggio di suggestioni una carica ipnotica e sensoriale ben tangibile, coccolando una stasi che non è mai immobilità ma puntuale pretesto per avventurarsi in terre impervie e sconosciute.

In Grand Tour, presentato in Concorso al 77esimo Festival di Cannes, Gomes parte da una ruota panoramica con due traiettorie che alla fine girano a vuoto, un po’ come quelle dei due protagonisti, Edward e Molly, delineando immediatamente il fatalismo senza bussola e fuori da ogni rigor di logica delle loro traiettorie esistenziali. Ciò che segue è innanzitutto un gioco – di stili, forme, alternanza di colore e bianco e nero, tentativi di film possibili – tenuto insieme da meravigliose riprese in 16 mm e azzardi meta-narrativi che sono ludici anche quando appaiono serissimi.

Il cineasta di Tabu e Le mille e una notte – Arabian Nights si è dovuto confrontare in questo caso con i limiti imposti alla produzione dalla pandemia, col Covid che ha bloccato la troupe in uno studio a Lisbona col set cinese del lungometraggio situato a 3500 km di distanza, fra Shanghaie la provincia del Sichuan (sono stati utilizzati anche i set di Cinecittà, coi teatri di posa aricreare soffusamente il passato in discontinuità con gli squarci più caotici del presente). La sensazione è che tale ostacolo sia stato risolto muovendosi ancora di più in direzione di un’ecletticità e di una frammentarietà che determinano le varie piste e tracce del racconto, scandendone tanto i momenti più strampalati e surreali quanto quelli più lirici e addirittura spirituali.

Quello di Grand Tour è dunque un altro esperimento di un autore ormai abituato a una metodica da rabdomante, che usa la narrazione come mosaico polifonico ma anche come infinito serbatoio di squarci preziosi attraverso i quali lasciare emergere la propria poetica. In questo caso, in un percorso che attraversa diversi paesi asiatici, dal Giappone alle Filippine passando per Cina, Thailandia e Vietnam, il respiro della riflessione sugli strascichi del colonialismo dell’Oriente è il convitato di pietra che tiene insieme tutto, come controcampo filosofico e morale delle immagini mostrate, ma è soprattutto il dispositivo narratologico e ciò che ne deriva a guidare lo sguardo di Gomes e le sue direzioni e bisettrici.

Grand Tour, a conti fatti, è un film in cui il senso si arrende al cospetto delle infinite possibilità che derivano dall’accettare l’impossibilità di comprensione umana – e occidentale in particolare – rispetto a certi misteri esoterici e insondabili che abitano la cultura orientale. In questa resa c’è una dichiarazione d’intenti liberatoria, che si abbandona a momenti di cinema purissimo (l’esecuzione di My Way di Frank Sinatra in un locale, tra le sequenze più belle, stranianti e magnetiche di tutta Cannes 77, ma anche il valzer Sul bel Danubio Blu di Johann Strauss piazzato tra le strade di Saigon) e a una zona d’ombra rigenerante tra la malinconia attonita e la vitalità comica e strampalata (la peculiarissima risata di Molly è decisamente indimenticabile).

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