Se c’è un film, in questo ottobre 2013, che merita assolutamente di essere visto, quello è “Gravity”.
“Nello spazio la vita non è possibile”.
Eppure Matt Kowalsky (George Clooney), veterano dello spazio, e la dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock) si ritrovano a lottare disperatamente per la sopravvivenza dopo che una violenta pioggia di detriti li ha investiti distruggendo lo shuttle su cui si trovavano in missione.
Sono gli unici superstiti.
La pellicola di Alfonso Cuaròn è un magistrale lavoro di computer grafica il cui scopo è quello di immergere quanto più possibile lo spettatore nello stesso vuoto che avvolge i suoi protagonisti.
Il punto di vista delle riprese, la luce, i lunghi, assordanti attimi di silenzio, tutto concorre a tale scopo.
L’uso del 3D, tecnologia che personalmente odio da sempre, non solo in questo caso appropriato, ma addirittura necessario. Con la profondità che va a creare sullo schermo rende tutti preda di una solitudine vasta anni luce.
Una grande Sandra Bullock, a cui è affidato il compito di trasmettere l’intera tempesta di emozioni che si scatena nell’animo del suo personaggio.
Il terrore puro, la tentazione di lasciarsi andare alla deriva, trascinata dal peso di un evento traumatico del proprio passato e che se ne frega dell’assenza di gravità.
L’istinto di sopravvivenza che, alla fine, è più potente di qualsiasi altra forza in gioco.
Qualcuno ha accusato Clooney di aver portato sullo schermo se stesso. Che dire, non conosco personalmente George, non riusciamo mai a incrociarci tra tutti i nostri impegni. Anche alla Mostra, mentre io arrivavo lui se ne andava.
Fatto sta che il suo personaggio è splendido, caratterizzato da una positività e da un modo di guardare le cose e di affrontare la vita ai limiti del commovente.
“Gravity” rischiava di essere la tipica americanata fantascientifica e invece è un capolavoro.
E, come spesso accade nell’ambito dei grandi Festival, a Venezia si è presentato fuori concorso.