Il film inizia con il corteo dei cardinali che, recitando una litania, si recano in conclave nella Cappella Sistina per l’elezione di un nuovo papa. La forma, in concordanza con le immagini iniziali (reali) del funerale di Giovanni Paolo II, è documentaristica, salvo alcuni tocchi dell’ironia fredda e irriverente di Moretti, quando descrive l’inesausta invadenza dei giornalisti (reminiscenza dei petulanti reporter felliniani de “La dolce vita”?) o la fragilità e certo candore degli anziani cardinali.
L’elezione è difficoltosa, si susseguono le fumate nere, poi finalmente i voti convergono su di un nome che non veniva indicato fra i favoriti, il cardinale Melville. Egli però, nuovo papa, al momento di affacciarsi al balcone per il tradizionale saluto ai fedeli, prorompe in un grido disperato e fugge. A chi gli chiede ragione del suo comportamento, rivela di essere terrorizzato e di non sentirsi all’altezza del compito. Ecco un primo elemento surreale: è possibile che un uomo sia giunto fin lì, sia diventato principe della chiesa, senza possedere capacità pastorali?
Quando entra in scena lo psicanalista (interpretato da Nanni Moretti stesso), chiamato per aiutare il Santo Padre a superare i propri problemi, assistiamo ad uno dei momenti più comici del film: le informazioni necessarie ad avviare un percorso terapeutico vengono negate una ad una perché in contrasto con i protocolli e le riservatezze vaticane. Moretti non si astiene dal sottolineare, con la sua solita aristocratica irriverenza, l’aspetto paradossale della situazione.
Andando avanti, il racconto sembra acquistare un carattere sempre più metaforico. Tuttavia l’ispirazione scarseggia e le metafore non sono pregnanti e significative, ma pallide e inconcluse. Melville fugge dal Vaticano e vaga per la città: lo vediamo prima da una psicanalista (Margherita Buy), moglie separata del primo, la quale sospetta in lui un “deficit di accudimento” (formulazione ridicola, con la quale, en passant, Moretti satireggia gli psicanalisti) patito nella prima infanzia, poi dentro i negozi, in albergo, in un teatro dove incontra una compagnia che sta mettendo in scena “Il gabbiano” di Cechov. Ma di tutte queste esperienze ci sfugge il significato (se esiste, bisogna andarlo a cercare troppo in profondità); esse non fanno avanzare d’un passo la vicenda, l’inettitudine di Melville resta, per lo spettatore, sostanzialmente inesplorata, misteriosa.
Intanto, in assenza del papa, entro le mura vaticane si svolge tra i cardinali, costretti a rimanere in sede in attesa dell’evolversi degli eventi, un surreale torneo di pallavolo (ancora il Fellini di “Roma”?), organizzato dallo psicanalista, anche lui prigioniero nel palazzo. Qui la perfidia di Moretti vorrebbe forse colpire, se non fosse che l’inadeguatezza dei giocatori è fin troppo prevedibile e scontata: si sorride debolmente.
Avendo visto “Il discorso del Re” di Tom Hooper, un film che tratta un tema analogo, quello di un uomo che dubita delle proprie capacità, viene di fare un confronto. Ma mentre nell’opera britannica il protagonista emerge a tutto tondo ed è umanamente credibile, nel film italiano il dramma del papa titubante non coinvolge lo spettatore. Il motivo della sua rinuncia non può essere ricondotto ad un “deficit di accudimento” o ad una vocazione di attore inascoltata! Da tempo sappiamo che i papi sono uomini come tutti noi e la descrizione del problema psichico che affligge uno di loro (ricondotto per questo ad una dimensione quasi infantile) non interessa, non emoziona.
Non trovando sufficiente spinta inventiva sul terreno dell’oggettività “Habemus papam” adotta il registro satirico-paradossale, con esiguo successo, incastonando, quando l’ispirazione viene meno, scene surreali la cui giustificazione, come abbiamo già osservato, è faticosa, a volte impossibile. Il tutto compone un film caricaturale, dove i personaggi sono figurine approssimativamente schizzate, e dove infine sembra circolare troppo desiderio di non prendersi sul serio. Il problema è che questo carattere mina in profondità anche l’opera nel suo complesso.
Il più felliniano dei film di Moretti, ma forse anche uno dei suoi meno riusciti.