Hammamet, ecco il Craxi di Gianni Amelio e Pierfrancesco Favino. La recensione
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Hammamet, ecco il Craxi di Gianni Amelio e Pierfrancesco Favino. La recensione

Non un film biografico, piuttosto un viaggio surreale nella morte di un uomo che diventa la metafora della morte di un'epoca e di un'idea di nazione

Hammamet, ecco il Craxi di Gianni Amelio e Pierfrancesco Favino. La recensione

Non un film biografico, piuttosto un viaggio surreale nella morte di un uomo che diventa la metafora della morte di un'epoca e di un'idea di nazione

L'incredibile trasformazione di Pierfrancesco Favino in Craxi in Hammamet
PANORAMICA
Regia (4)
Interpretazioni (4.5)
Sceneggiatura (4)
Fotografia (3.5)
Montaggio (3.5)
Colonna sonora (2.5)

Hammamet è una storia di fantasmi. Non solo il fantasma più ovvio, quello di Craxi, mai citato per nome, ma i fantasmi di un’epoca – la Prima Repubblica – e ancor più di un sentimento storico. Forse è per questo che, oltre ai nomi, nel film manca il contesto, cioè tutto il quadro ambientale che avrebbe aiutato una comprensione più letterale dei fatti a chi è giovane o non li ricorda: perché il tema è la sparizione del passato, la sua disincarnazione. In questo senso siamo molto lontani dalle serie Sky 1992-1994 che hanno usato la Storia come piedistallo per una costruzione romanzesca, a tratti da soap opera: la Storia in Hammamet è evocata piuttosto con gli strumenti del teatro, cioè attraverso l’invenzione formale, la deviazione immaginifica, lo scarto surreale.

Film incredibilmente cupo, anzi funebre, mette in scena la devastazione di un’idea di Stato attraverso la devastazione del corpo craxiano, un corpo così rassegnato al proprio destino da rifiutare ormai qualsiasi genere di lusinga, comprese quelle più facilmente sessuali (la scena in albergo con l’amante). Tutto è letterale e (quindi) tutto è simbolico: il trucco e l’interpretazione di Favino sono stupefacenti, la villa tunisina è proprio quella di famiglia (è stata prestata al film), eppure la figlia si chiama Anita e non Stefania, “Craxi” non è mai pronunciato, il politico-ex rivale che gli fa visita è plausibilmente un democristiano ma non assomiglia a nessuno, certi momenti chiave del personaggio storico – come le monetine al Raphael Hotel – vengono evocate ma fuori contesto, tanto che per molti resteranno invisibili. E così via.

In questa prospettiva si può dire che il film sia estremamente bellocchiano, più bellocchiano del Traditore stesso: in ultimo la morte si consuma addirittura nei margini di un sogno felliniano/bagaglinesco, una fantasia che completa benissimo la traiettoria del film, rendendolo definitivamente grottesco, sottraendolo a ogni malinconia, come suggerito dall’entrata in campo della figura del padre (l’ultima interpretazione del grande Omero Antonutti) e poi subito contraddetto. 

C’è in Hammamet anche una trama diciamo gialla: il figlio del tesoriere socialista, suicida, che entra nella villa come un ladro e cova fantasie di vendetta. Diventa invece il confessore del Presidente, lo riprende con una camera, gli fa pronunciare la sua difesa, è il depositario di segreti innominabili. Attenendoci a una metafora dickensiana, diremmo che è l’incarnazione del senso di colpa, cioè il fantasma del Natale presente, quanto il padre di Craxi lo è del Natale passato e il politico democristiano (ma anche i due giullari del sogno, vagamente “beppegrilleschi”) quello del Natale futuro.

Così dunque Amelio gioca le sue carte: non dice mai i nomi e non dice mai i fatti, perché quello che vuole costruire è un thriller simbolico sulla morte dell’Italia, sul fatto che viviamo di conseguenza adesso in un paese putrefatto. In questo senso il film è assolutamente politico e schierato, al di là delle dichiarazioni ai giornali e se vogliamo anche al di là delle intenzioni: non è nostalgico ma è travagliato, pieno di rimpianto. Così attraverso la massima immedesimazione di un interprete grande come Favino, tutto diventa altro da sé: etereo e definitivo, vicino alla sparizione.

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