Hannah Arendt: la recensione di Dolby MOVIE 5.1
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Hannah Arendt: la recensione di Dolby MOVIE 5.1

Hannah Arendt: la recensione di Dolby MOVIE 5.1

Hannah Arendt

voto 8.5 / 10

“Ma sai che io non posso amare gli ebrei, come non amo il popolo, non amo la folla; io amo solo i miei amici, amo la gente che conosco”

Margarethe Von Trotta torna in cabina di regia, e lo fa regalandoci un altro dei suoi film in cui la protagnista è una donna decisamente controcorrente : “Hannah Arendt”.
Il film narra gli anni in cui la Harendt, filosofa ed esule ebrea rifugiatasi in America insieme all’amato marito Heinrich (Axel Milberg), per conto della testata “New Yorker” partecipa in Israele al processo che vede imputato niente meno che Adolf Heichmann, uno dei tanti fedeli servitori di Hitler che dopo la fine del 2° conflitto mondiale scelse la “ratline”, rifugiandosi in Argentina.
A processo concluso la Harendt produsse una delle opere più belle ma allo stesso tempo più controverse riguardanti la persecuzione degli ebrei e i suoi protagonisti, “La banalità del male”.
Da essa, come dal messaggio che la regista vuole lasciarci, emerge una sconcertante teoria; colui che è capace di prendere parte al compimento di atti così brutali (parliamo dello sterminio di 6 milioni di ebrei), non è sempre e soltanto riconducibile ad un essere diabolico, ma è a volte, un semplice inetto, una persona qualunque, che semplicemente, come Heichmann e molti suoi colleghi testimoniarono, “eseguiva solo ordini superiori”, annullando totalmente ogni capacità di pensiero per diventare un semplice esecutore. La Harendt fu letteralmente investita di critiche (sia nell’università dove insegnava, sia tra i suoi amici), e per aver espresso tale tesi, quasi assolvendo un Eichmann che qualsiasi ebreo dell’epoca vedeva solo come un mostro sanguinario la cui morte era solo una magra consolazione, e per aver accennato nella sua opera ad una “possibile cooperazione” dei capi ebrei con le SS per le deportazioni. Nella pellicola la Von Trotta riesce magnificamente a mettere in contrasto questa voglia asfissiante degli ebrei sopravvissuti di ottenere una vendetta su tutta la linea utilizzando qualsiasi mezzo possibile (Heichmann fu rapito dal Mossad e portato in Israele senza l’approvazione del governo argentino e processato da uno stato non ancora riconosciuto tale) e la visione più distaccata e razionale della Harendt, consapevole che quel processo non doveva essere una caccia al singolo individuo, ma ad un sistema, ad un intera organizzazione criminale. La donna mai si piegherà di fronte a tutti gli attacchi ricevuti, e grazie al sostegno del marito (personaggio che la completa in tutto), della sua collaboratrice e dell’amica Mary (un’ottima Janet Mcteer) saprà ben difendere le sue idee, come testimonia la sequenza finale.
Un discorso di 8 minuti per ben rispondere a tutte le critiche ricevute, come di fronte ad una corte, in maniera più energica e forte di come invece vediamo fare ad Eichmann nei footage che la regista ci ripropone riguardo al vero processo avvenuto in Israele. Una pellicola in definitiva degna di nota quella della regista tedesca, in cui spiccano l’interpretazione di Barbara Sukowa, aiutata anche dalla grande somiglianza con la filosofa ebraico-tedesca, l’ottima scenografia (il film è girato per la quasi totalità in interni tipici dell’America anni 60’), e una consiglio importante, quale è quello di cercare di avere sempre una propria opinione e un proprio pensiero su ogni cosa, senza dare mai per scontate verità o bugie professate da altri, annullando la propria personalità per un credo superiore.

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