Per quanto la sua filmografia non possa che essere definita altalenante, Robert Zemeckis non ha certamente mancato di usufruire delle potenzialità del medium cinematografico nei suoi progetti, con particolare attenzione al progresso tecnologico. L’impressione dietro ai lavori più recenti del regista di grandi cult come la trilogia di Ritorno al Futuro e Forrest Gump è che spesso sia stata data priorità alla rincorsa verso l’achievement tecnico piuttosto che al prodotto finale.
Basti pensare alla serie di lungometraggi d’animazione 3D coi quali ha intrapreso una primordiale sperimentazione della motion capture, da Polar Express a Christmas Carol, con risultati decisamente altalenanti. Al tempo stesso, in anni non sospetti, fu tra i primi nell’ambito mainstream ad ibridare personaggi animati in contesti live action con una delle sue pellicole più amate: Chi ha Incastrato Roger Rabbit?
Come poteva esimersi un pioniere di questo calibro, anche dopo diversi passi falsi nell’ultimo decennio (il più recente un remake senz’anima di Pinocchio), dall’adattare una delle opere cartacee più visionarie da diversi anni? La graphic novel in questione (completata nel 2014 dopo una precedente versione di sole 6 pagine) è Here, firmata da Richard McGuire.
L’ambizioso obiettivo fa intuire il fascino del regista verso questo progetto: raccontare da un unico punto di vista spaziale una finestra temporale vastissima, dalla nascita della vita sulla Terra fino al giorno d’oggi. Il focus del film diventa più lampante, seguendo principalmente la storia della famiglia Young (ironico considerando l’uso massiccio del ringiovanimento digitale): Richard (Tom Hanks), Margaret (Robin Wright), Al (Paul Bettany) e Rose (Kelly Reilly).
Il dubbio più ingombrante dietro questa traduzione consiste proprio nella natura di questa narrazione: può un’opera così strettamente legata alle specificità dell’ottava arte essere adattata con fluidità con le dinamiche della settima? La risposta è senz’altro affermativa, soprattutto ora che il concetto di medium cinematografico è sempre più nebuloso e indefinibile.
Proprio in questa crisi di identità del cinema, un esperimento come Here, sovrappopolato da schermi e riquadri in continuo dialogo tra loro, può resuscitare in un altro formato, proprio perché l’ubiquità delle immagini (e dei relativi ipertesti) è una caratteristica esclusiva del contemporaneo.
Tramite questi vasi comunicanti, Zemeckis eredita l’intenzione di McGuire, compiendo una doppia azione sull’oggetto della propria analisi. Laddove la controparte cartacea cercava di visualizzare il futuro, il lungometraggio si “accontenta” dello scibile umano, fermandosi al periodo pandemico. Giocando con queste istantanee, si ritrova quindi a restringere le coordinate temporali.
Il regista, al tempo stesso, allarga il suo campo d’azione su un livello più allusivo: se il “qui” viene rigidamente rispettato per la quasi totalità del film, col proseguire delle vicende diventa sempre più lampante la sua natura di pretesto per raccontare l’intera umanità e le sue caratteristiche primigenie: la sua necessità di una ritualità, così come un antitetico liberamento da essa per poter garantire la propria sopravvivenza.
I ponti tra i riquadri diventano quindi legami fondati su una situazione o un’emozione ricorrente nel corso della Storia dell’uomo, evidenziando una ripetitività dalla quale sembra impossibile sfuggire. Il caso della famiglia americana media, quasi intrappolata in una casa a schiera, indistinguibile dalle altre, si rende esemplare.
Il ritratto che esce del divenire storico secondo Zemeckis è deprimente, ma al tempo stesso profondamente umanista. Here è un film carico di amore per i tratti innati e inalienabili della nostra specie, su tutti il bisogno di comunità e quanto il suo ricordo, anche frutto di distorsione della realtà, sia indispensabile per la prosecuzione dell’esistenza umana.
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