Nella sua forma più commerciale, l’horror è un dispositivo meccanico, un’attrazione che segue regole non troppo diverse da quelle di una qualsiasi casa delle streghe di un Luna Park di provincia. Cioè lo spavento, come i gag nel cinema slapstick, è il risultato di una regola, c’è più calcolo che improvvisazione, può essere riprodotta all’infinito. In questo senso la qualità di questi film è sempre “prima e dopo” il dispositivo, cioè nelle ragioni politiche di un gesto cinematografico così preciso, e nella costruzione del tempo del racconto, delle sue atmosfere (i luoghi, di solito, si ripetono anch’essi).
La ragione per cui Hereditary sta risvegliando l’interesse – ultimamente un po’ sopito (ma stanno arrivando anche Mandy e The House That Jack Built) – degli appassionati dell’horror è che svuota i suoi riti del solito armamentario di chincaglierie cigolanti e apparizioni spaventose per ricostruire la tensione attraverso le parole e gli sguardi dei suoi protagonisti (una versione creepy della “Spielberg face”, a cui Toni Collette rende un servizio degno della Shelley Duvall di Shining…). Una specie di tutti contro tutti, ma rigorosamente nella cerchia di una famiglia – madre, padre, due figli teenager – in cui ogni legame di parentela si porta appresso una tentazione di annientamento che ha presupposti sinistri ma realistici.
Il film inizia con la morte della nonna: un funerale, un lutto da elaborare nella solita enorme villa circondata da una foresta. Ma appena Annie Graham (la citata Collette) apre bocca capiamo che il primo atto della storia è contemporaneamente il punto di arrivo e quello di partenza di una vicenda di malattie mentali e tragedie domestiche. Tutte queste cose vengono appunto “dette”, e per oltre un’ora il film tiene lo spettatore indeciso sul rapporto di forze tra naturale e soprannaturale. Ovviamente è proprio in quel dubbio, sempre, che cresce l’atmosfera dei grandi film horror, nella tensione di capire quando e se – dopo tante parole – si lascerà spazio all’indicibile.
Si può pensare a Hereditary come a una crasi tra Kill List e Il sacrificio del cervo sacro (se vi piace l’horror li avete visti per forza): vive in un tempo dilatato e misterioso, poi alterna notti e giorni con stacchi bruschi, allontana maledizioni e stregonerie in un’area incerta, solo quando è inevitabile le riporta al centro del discorso. Questa precarietà di tono si riflette nell’intuizione più bella di Ari Aster, regista e sceneggiatore, ovvero il lavoro della protagonista, artigiana che nel suo studio costruisce mondi in miniatura per una galleria d’arte. E nel costruirli riproduce la propria casa e poi gli scenari dove accadono i fatti più agghiaccianti della storia che sta vivendo, una questione scenografica che al di là del giochino metacinematografico fa da prisma per la follia nella quale i protagonisti pian piano annegano.
C’è un gran talento visivo e molta intelligenza in Hereditary, il ritratto di una famiglia irreparabilmente malata ma anche un sotto-mondo di demoni e stregonerie, due aree che si incontrano in un territorio nebuloso, portando lo spettatore fuori dalla sua zona di comfort e lasciandolo lì quando infine si affondano i colpi.
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