Hereditary - Le radici del male
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Hereditary – Le radici del male

Una maledizione che si tramanda di generazione in generazione al centro di uno degli horror più suggestivi del 2018. Toni Collette firma una grande interpretazione

Hereditary – Le radici del male

Una maledizione che si tramanda di generazione in generazione al centro di uno degli horror più suggestivi del 2018. Toni Collette firma una grande interpretazione

Milly Shapiro in Hereditary
PANORAMICA
Regia (4)
Interpretazioni (4)
Sceneggiatura (3)
Fotografia (3.5)
Montaggio (4)
Colonna sonora (4)

Nella sua forma più commerciale, l’horror è un dispositivo meccanico, un’attrazione che segue regole non troppo diverse da quelle di una qualsiasi casa delle streghe di un Luna Park di provincia. Cioè lo spavento, come i gag nel cinema slapstick, è il risultato di una regola, c’è più calcolo che improvvisazione, può essere riprodotta all’infinito. In questo senso la qualità di questi film è sempre “prima e dopo” il dispositivo, cioè nelle ragioni politiche di un gesto cinematografico così preciso, e nella costruzione del tempo del racconto, delle sue atmosfere (i luoghi, di solito, si ripetono anch’essi).

La ragione per cui Hereditary sta risvegliando l’interesse – ultimamente un po’ sopito (ma stanno arrivando anche Mandy e The House That Jack Built) – degli appassionati dell’horror è che svuota i suoi riti del solito armamentario di chincaglierie cigolanti e apparizioni spaventose per ricostruire la tensione attraverso le parole e gli sguardi dei suoi protagonisti (una versione creepy della “Spielberg face”, a cui Toni Collette rende un servizio degno della Shelley Duvall di Shining…). Una specie di tutti contro tutti, ma rigorosamente nella cerchia di una famiglia – madre, padre, due figli teenager – in cui ogni legame di parentela si porta appresso una tentazione di annientamento che ha presupposti sinistri ma realistici.

Il film inizia con la morte della nonna: un funerale, un lutto da elaborare nella solita enorme villa circondata da una foresta. Ma appena Annie Graham (la citata Collette) apre bocca capiamo che il primo atto della storia è contemporaneamente il punto di arrivo e quello di partenza di una vicenda di malattie mentali e tragedie domestiche. Tutte queste cose vengono appunto “dette”, e per oltre un’ora il film tiene lo spettatore indeciso sul rapporto di forze tra naturale e soprannaturale. Ovviamente è proprio in quel dubbio, sempre, che cresce l’atmosfera dei grandi film horror, nella tensione di capire quando e se – dopo tante parole – si lascerà spazio all’indicibile.

Si può pensare a Hereditary come a una crasi tra Kill List e Il sacrificio del cervo sacro (se vi piace l’horror li avete visti per forza): vive in un tempo dilatato e misterioso, poi alterna notti e giorni con stacchi bruschi, allontana maledizioni e stregonerie in un’area incerta, solo quando è inevitabile le riporta al centro del discorso. Questa precarietà di tono si riflette nell’intuizione più bella di Ari Aster, regista e sceneggiatore, ovvero il lavoro della protagonista, artigiana che nel suo studio costruisce mondi in miniatura per una galleria d’arte. E nel costruirli riproduce la propria casa e poi gli scenari dove accadono i fatti più agghiaccianti della storia che sta vivendo, una questione scenografica che al di là del giochino metacinematografico fa da prisma per la follia nella quale i protagonisti pian piano annegano.

C’è un gran talento visivo e molta intelligenza in Hereditary, il ritratto di una famiglia irreparabilmente malata ma anche un sotto-mondo di demoni e stregonerie, due aree che si incontrano in un territorio nebuloso, portando lo spettatore fuori dalla sua zona di comfort e lasciandolo lì quando infine si affondano i colpi.

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