Lunare lucenza, magica fulgidità o fluidità sognante, d’argentato metacinema d’una perlacea “pariginità”… Fragranze. S’odon, nei gemiti crepuscolari di notti intrise di svagatezze già morbose.
Nei respiri incantatori delle fluorescenze, ch’echeggian a evocar cardiaci liquori d’adamantini ardori.
Nell’assopita nostra “tenebra”, nostre flessuose librazioni d’evanescenza sempre sulfurea ch’orbita “craterica” d’emozioni dalla vaghezza ondivaga, nostro Sguardo di carezzevol liturgia, lisergica, d’inquietudini dalle oscillazioni nerviche.
Melanconia
Un tuffo indietro…
Travis Bickle, vampiro di sonnolente ferocia dall’agguerrita astrazione nella soffusa sua sanguinolenza che urlerà catartica.
Invisibilità, della sua stessa smembrata ombra nella sua mente di “meteoroastronomica”, ma straniera, costellazione metafisica di nervica, agonica perdizione d’una fioca m’abrasiva dissolvenza, enigmatico fantasma che corruga le raggrinzite sue anime nei demoni di riflettenze o d’una cupa messianità di torve (ri)flessioni. Tiepidezze nelle fugacità d’insonne nottambulismo, d’ectoplasmatici asfalti di nostri, tortuosi destini d’abissal plenilunio “nero”.
Cristalli liquidi di pura levità, “acquatica”, nella tonica morbidezza di magnifici fasti sfarzosi, nell’aurea ipnosi di diafana, immacolata ascendenza eterica.
E, in essa, ancor immersa di magma.
I sogni… impalpabilità di voli nel vento, amniotico delirio di sfolgorii dalle fiammeggianti scintille.
Questo è il Cinema, “ispezione” della nostra stessa indagine di meandrica luminescenza nelle reminescenze.
Di quando, il primo screpolio, “addolcì” di furenza proprio altre luminosità, per “svezzarci” moribondi dall’idillica, infantile dormienza, a innocenze già foderate nel Mondo, in questa prigionia, però dorata, di fascinosa licantropia.
Guaine di pelli già martiri, nostre salvazioni senza desideri di redentoria “quiete”.
Martin, attinge a se stesso, il suo Canto è vaporosa sinergia di tante sue memorie (auto)biografiche. Del suo Cuore, per com’è favolosa Luce, o nitidi barlumi di sue stesse “oscurità serali” di sua stessa inventiva in questa (re)invenzione della vita. Di sue mnemoniche, libere “allucinazioni”.
Incandescenza dei nostri occhi, nelle diaframmatiche, “esangui” palpebre che s’accecan, sfavillanti, di pindarica Bellezza. Quasi acrobazie, dal nostro primo, silenzioso respiro al torbido poi “svanirci” d’eclissi tenui, poi dentro, vorticose, inafferrabili “repentinità”-serpentine d’ematica limpidezza di nostra, quasi, ventricolar veggenza dai docili turgori delle vene.
Zoom “innevato” d’un “pallido” Inverno, d’ambrate già meraviglie nelle incatenate telepatie struggenti d'”acustica” cinefilia
Pressapoco, verso la fine della scorsa decade, svenevolmente abbacinata di nuove modernità “millenaristiche”, in un pomeriggio orfano, o forse “orafo”, della mia anonimia di già plumbee vaghezze “omonime”, mi rasserenerai nella lettura d’un futuristico onirismo di là a venire, già di sgorganti, melodici deliqui.
Alla libreria Feltrinelli, acquistai infatti, quasi “in camuffa”, “La straordinaria invenzione di Hgo Cabret”, libro scritto e illustrato di Brian Selznick, “Medaglia Caldecott” 2008.
Incuriosito che, questa “lettura per bambini”, fosse stata opzionata con tanta “autorialità” come fonte ispirativa della prossima, annunciata opera di Scorsese.
Nello stupor d’un commesso “sospettoso” che mi “malocchieggiò” con civetteria “affettuosa”.
Forse, Sacha Baron Cohen…
La Luna, le luci di una città, una stazione affollata, due occhi spaventati. Le immagini a carboncino scorrono come in un cinema di carta fino a inquadrare il volto di Hugo Cabret, l’orfano che vive nella stazione di Parigi. Nel suo nascondiglio segreto, Hugo coltiva il sogno di diventare un grande illusionista e di portare a termine una missione: riparare l’automa prodigioso che il padre gli ha lasciato prima di morire. Ma, sorpreso a rubare nella bottega di un giocattolaio, Hugo si imbatterà in Isabelle, una ragazza che lo aiuterà a risolvere un affascinante mistero in cui identità segrete verranno svelate e un grande, dimenticato maestro del cinema tornerà in vita. Tra romanzo, cinema e graphic novel, un libro in cui le parole illustrano le immagini.
Queste, le testuali parole della quarta di copertina della versione “tradotta” in italiano, per la Mondadori.
Oggi, questo “piccolo” gioiello è un capolavoro, ancor più abbellito d’una “esornazione” di ben 11 nomination agli Oscar.
Nella “stilografica” della trasposizione sceneggiata da John Logan, e nella maestria stilistica di uno dei più grandi registi viventi, qui nella sua magniloquenza più elegantemente “simbiotica” e “appariscente” di dichiarata, “epistolare”, visionaria tatuazione alla Settima Arte.
Cos’è il Mondo, o come c’appare? Nitore che, saltuario, rifulgerà di nostra ludica euforia disciolta.
Nerezza, già incupita, che ci mormora di lagrime che, poche volte, danzeran, azzurre, raggelate da “grigiezze” nebbiose scremate in turbinii dai foschi veli.
In questo caos, altezzoso e cinico, macchinosità, forse solo, d’ingranaggi arrugginiti o rotti, c’arricchiamo, e c’arricciamo “intimistici” dentro illusori rifugi, per non “incanutirci”, ma ardendoci per scolpir sempre l’anima, ché si libri briosa.
Per “nevosità” che si scaldino d’una cadenza che s’accalori al gaudio armonioso del sangue.
Per viverla nei sogni, fuoco sacro dell’anima.
“Faro” su Parigi, “orologeria” dei nostri giocattoli, e occhi ammiccanti d’un sorriso prima di canagliesca impasse e poi da impacciato sorriso “pagliaccio”.
Film che innalza l’estasi della vita, e, per non renderci smemorati, ricorda anche la morte e i suoi dolori, come quella, quasi fuori scena, “sfiammata” di Jude Law, il padre di Hugo, Cinema che, poderoso, s’imprime anche per turgidezze sfocate, come nella rochezza alcolizzata di Ray Winstone, l'”ubriacone” zio Claude, per il profumo “polveroso” dello scibile, fulgore mai a incenerirla, dai contorni suadenti incorniciati nella vivacità eterna di colui che incarna in sé, quasi “fantasmatico”, gli scrigni dell’aromatico sapor antico per la conoscenza, immortalato poeticamente nell’arcana sapienza d’una biblioteca vivente che ha, proprio appunto, le sembianze mistiche, d’uno ieratico, ammaliante “spettro”, Christopher Lee, Monsieur Labisse.
Negli occhi neri ma trasparenti, “addolorati” ma “screpolati” di sublime cangevolezza immaginifica di Ben Kinsgley, Georges Méliès, e nell’espressività iridescente d’un “folletto” celeste, Asa Butterfield, il “signor” Hugo… Hugo Cabret.
Esco dalla sala, ancor frastornato d’intattezza ammaliata in questo maliardo rapimento, però “impalpabile”, leggera come l’ebbrezza, di tale memorabile, superba avvenenza.
Avvenenza ch’è incanto soave.
Uomini, nel vento.
Osservo un bambino con occhi pieni di gioia, che già si commuove perché, anche lui, vuol vivere una straordinaria, fantastica avventura in 3D.
E, quel gusto dei suoi occhi, so che non s’è, e non l’ho, perduto.
Come Hugo.
Come Martin Scorsese.
(Stefano Falotico)
© RIPRODUZIONE RISERVATA