Quando si sente parlare, oggi, di cinema “stile anni ’80″, mi sembra che il tratto distintivo, più che un qualche tipo di messa in scena o di impaginazione – certi movimenti di macchina, i ritmi del montaggio -, stia nella scelta di affrontare grandi temi con metafore agevoli e immaginifiche, secondo un uso “primitivo” del fantasy che oggi è evoluto invece nelle acrobazie digitali senza senso di robottoni e supereroi, dove il valore risiede nel virtuosismo e non nella costruzione di significato. In questo senso il cinema di Neill Blomkamp, e in particolare questo Humandroid, è estremamente anni ’80, nonostante l’estetica sci-fi realista e devoluta, perfettamente contemporanea, che ha fatto la fortuna del regista.
Il film, nuovamente ambientato in Sudafrica – come l’esordio District 9 – racconta di un futuro prossimo in cui la polizia è stata parzialmente robotizzata, e nelle azioni sul campo la prima linea è sempre formata da androidi in titanio, snodabili e indistruttibili, con un paio di antenne sulla testa che gli conferiscono una figura tra l’umano e l’animalesco.
I robot sono forniti da una grossa azienda (è interessante e azzeccato che non sia la solita multinazionale monolitica ospitata/simbolizzata da un grattacielo: gli uffici, il magazzino e la fabbrica si trovano invece in un insignificante complesso industriale) in cui lavora Deon (si legge DION…), un tecnico informatico (Dev Patel, l’avete visto in Newsroom e in The Millionaire) che, nel tempo libero, sta sviluppando un programma di Intelligenza Artificiale. Quando il software è pronto, decide di installarlo su un androide scassato e abbandonato, che vorrebbe educare all’arte e alla creatività in generale, per testarne i limiti gnoseologici: funziona a meraviglia, non fosse che cade nelle mani di una banda di punk che progettano di trasformarlo in un gangster. E c’è pure un suo collega d’azienda (Hugh Jackman), Vincent, ex militare frustrato e fascistoide, che vorrebbe sostituire gli umanoidi con una specie di carroarmato volante di sua invenzione.
Si genera così un doppio confitto Deon/punk e Deon/Vincent (ovvero etico e industriale, secondo binari molto simili a quelli percorsi dal primo Robocop), che vorrebbe da una parte far riflettere sul diritto/difficoltà dei figli all’autodeterminazione, e dall’altro imbastire un discorso sulla natura della coscienza che appunto trent’anni fa sarebbe probabilmente sembrato appropriato, ma ormai suona soltanto un po’ naïf (la sostanza filosofica non muta di un’unghia da quella di Blade Runner, e a volte neppure i dialoghi, ma certo con ben altra poesia). Funziona invece molto bene l’animazione del robot, e in generale tutto lo sviluppo della narrazione che riguarda il suo apprendistato alla vita e alla crudeltà umana, una specie di versione futuristica di Oliver Twist.
Scene d’azione toste e leggibili, con un paio di trovate molto belle, comunque sopra la media omogeneizzata di quel che si vede in giro: ma se conoscete gli altri film di Blomkamp già sapete cosa aspettarvi. Finale, però, pasticciatissimo, con coscienze scaricate su chiavetta USB una via l’altra, manco fossero le puntate di True Detective.
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Mi piace: l’uso primitivo del fantasy, in stile anni ’80.
Non mi piace: la naiveté con cui si trattano argomenti che oggi suonano “obsoleti”. Il finale pasticciatissimo.
Consigliato a chi: a chi ha amato District 9 e agli appassionati dello sci-fi senza ma e senza se.
VOTO: 3/5
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