È facile, a seguito del polverone mediatico che ha suscitato, cadere nella trappola di ipotizzare che Hunger Games possa somigliare alle altre saghe uscite negli ultimi anni, ma è un pregiudizio che la visione del film spazzerà via. Il film è un’opera matura che non indulge su temi rassicuranti. Anzi. Introduce un immaginario che non ha nulla di edulcorato. E niente di quanto visto nel campo dei blockbuster derivati dalla letteratura young/adult potrà avervi preparato alla storia di un gruppo di adolescenti, poco più che bambini alcuni, che si uccidono tra loro barbaramente per sopravvivenza. E ad aumentare il senso di orrore è il fatto che tale massacro sia frutto di strategie politiche tese da una parte al controllo delle masse oppresse, dall’altra al divertimento di eccitati spettatori che seguono quest’arena con lo stesso diletto giocoso con cui oggi molti coltivano il guilty pleasure dei reality show. Nonostante ciò, è un film che tutti possono vedere (anche se consigliamo la vicinanza degli adulti per i giovanissimi), perché si è evitato il divieto ai minori non mostrando mai troppo da vicino – con una cautela che a volte va a danno del realismo – la violenza in atto, quanto piuttosto i suoi tragici effetti.
Il pregio che va riconosciuto subito al film è che, pur essendo tratto da una trilogia letteraria di successo, Hunger Games non ha bisogno di alcuna lettura preventiva. Non è pensato solo per i fan, e si regge perfettamente sulle sue gambe, semmai anzi innovando e prendendosi radicali libertà rispetto al racconto originale di Suzanne Collins.
Il regista Gary Ross (Pleasentville, Seabiscuit) ha voluto imprimervi con decisione il suo marchio di fabbrica, snellendo molto il racconto, tagliando alcuni personaggi collaterali e smussando di molto l’aspetto romance che nel romanzo ha una preminenza maggiore. Il suo intento principale è quello di dare vita a un’eroina indimenticabile e a un nuovo immaginario sci-fi, in cui si fondono tanti e tali riferimenti storici, letterari, mitologici e di attualità, da costituire un unicum davvero potente nel suo genere.
Panem et circenses, dittature fasciste, 1984 e Battle Royale: Hunger Games è una spugna che ha assorbito i fondamenti della cultura occidentale per rioffrirceli geneticamente modificati in un andirivieni costante tra passato e presente, che ha l’intento di fungere da riflessione, monito e – chissà? – profezia sull’agghiacciante futuro che ci si prospetta.
Un futuro post-apocalittico come quello del pianeta Panem, costituito da 12 Distretti, diversissimi tra loro per ricchezza e stile di vita. Si va dal poverissimo 12mo Distretto abitato da minatori indigenti, il cui habitat è illustrato tramite una fotografia desaturata di colori, fino alla lussuosa, coloratissima e corrotta Capitol City, che sembra ricordare una versione sci-fi di Versailles, popolata da gente talmente superficiale e innamorata dell’estetica da suggerire parallelismi con la corte del Re Sole o l’aristocrazia romana ai tempi di Nerone.
Qui ogni anno si svolgono gli Hunger Games, arena mediatica, per cui vengono sorteggiati dodici ragazzi e dodici ragazze, due da ogni distretto. E il destino vuole che a essere sorteggiata sia proprio la sorellina della giovane Katniss Everdeen, che pur di salvarla si offre volontaria come vittima sacrificale. Katniss è bella, indomita, di poche parole; preferisce l’azione, soprattutto tirare con l’arco da provetta cacciatrice qual è. Un’amazzone che ha imparato presto a cavarsela da sola dopo la morte del padre, cui la neo-star Jennifer Lawrence, di cui già avevamo ammirato la bravura in Un gelido inverno, presta una presenza carismatica e una capacità di bucare lo schermo davvero insolita per la sua età. E’ davvero difficile rintracciare nel panorama contemporaneo un’attrice giovane che abbia la sua stessa capacità di trasmettere uno spettro di emozioni così ampio e di dare vita a un’eroina indimenticabile come Katniss. La sua purezza, il suo rigore morale, il suo spirito di sacrificio la trasformano da subito in un simbolo di libertà e giustizia, come intuiamo da quel gesto essenziale: quelle tre dita sollevate in aria in segno di ammirazione e sostegno da parte delle popolazioni dei distretti più poveri.
Dopo una prima parte in cui si assiste all’allenamento e alla preparazione dei ragazzi, in ambienti lussuosi e forniti di cibo a volontà e ogni ben di Dio, si viene catapultati nel cuore dell’azione, pilotata dagli Strateghi e dal loro capo Seneca Crane (Wes Bentley): l’arena. In questo perimetro pericolosissimo restiamo incollati a Katniss, anche attraverso delle soggettive “immersive” tramite cui viviamo le sue tensioni, ma anche le sue allucinazioni e i suoi stordimenti di fronte alle continue sollecitazioni in atto.
Va dato atto a Gary Ross di aver dato prova di ottime doti di regia grazie a un sapiente uso della macchina da presa a mano (che genera un look sporco e quasi documentaristico specie nelle scene dell’arena) e a un montaggio molto veloce, che ben si accompagna alla suspence costante del film. Che poco prima della fine però vive un momento di stanchezza dato il dilungarsi nelle scene d’azione a cui forse si sarebbero potute preferire maggiori considerazioni sui retroscena politici occulti degli Hunger Games.
Da sottolineare i comprimari di lusso della Lawrence, dal mentore alcolizzato Woody Harrelson, allo stilista saggio e compassionevole Lenny Kravitz, perfetto nella parte e dotato di un talento naturale per la recitazione, passando per l’istrionico e sempre coloratissimo presentatore del programma Stanley Tucci, figlio di tutte le Maria De Filippi di oggi, sempre pronto a dare in pasto al pubblico una storia lacrimevole, per arrivare infine al tirannico e suadente presidente di Panem Donald Sutherland, che tira le fila di tutto questo perverso meccanismo, strutturato per garantirsi l’obbedienza delle masse opprese e sollazzare l’aristocrazia viziata di capitol City. Avida di emozioni forti, vittima di un vouyerismo sfrenato che brama idilli tra le vittime, come quello montato ad arte (o forse no?) tra Katniss e Peeta, l’altro sorteggiato del Distretto 12. Ed è anche questa costante ambiguità di fondo a rendere il tutto misterioso e intrigante, lasciandoci con diversi interrogativi in sospeso.
Hunger Games segna una svolta definitiva per le saghe, superando le barriere generazionali e costituendo un prototipo che siamo sicuri verrà presto emulato.
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Mi piace
La nascita di una nuova saga sci-fi con il suo specifico linguaggio. L’eroina protagonista, carismatica e capace di bucare lo schermo al primo sguardo.
Non mi piace
L’eccessiva cautela nel non mostrare le scene crude che toglie realismo alla narrazione. Un leggero calo del ritmo verso la fine quando invece dovrebbe raggiungere il culmine.
Consigliato a chi
Ama le storie piene di tensione ed è alla ricerca di un universo (quasi) inedito in cui tuffarsi.
Voto
4/5
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