Molti, probabilmente, hanno memorizzato il suo nome e quello del suo attore feticcio, Michael Fassbender, dopo aver visto Shame, l’opera “scandalo” presentata all’ultima Mostra di Venezia, che è valsa a Fassbender la Coppa Volpi e nella quale si affronta la malattia di un uomo dipendente dal sesso. Pochi sanno, però, che il loro sodalizio artistico è iniziato qualche tempo fa con un altro film, opera prima per Steve McQueen e probabilmente il suo capolavoro. Un film di una potenza sconvolgente, che ha subito consacrato questo militante della videoarte (lui stesso ama definirsi un artista) come uno dei grandi autori del cinema contemporaneo.
Hunger esce nei cinema italiani a distanza di quattro anni e dopo aver macinato diversi premi; tra gli altri, la Camera d’Or al Festival di Cannes 2008 come Miglior opera prima e il Carl Foreman Award (premio per l’esordio più promettente) ai Bafta 2009. E, così come accadde nel 2008, arriva in sala con la precisa volontà di smuovere e far discutere.
È la storia di Bobby Sands, attivista dell’IRA che, una volta in carcere, guidò uno sciopero della fame a oltranza come forma di protesta contro il governo britannico, incontrando l’adesione di molti prigionieri. Ma Hunger è soprattutto uno spaccato della vita nella prigione di Long Kesh – conosciuta come The Maze (il labirinto) – nell’Irlanda del Nord: luogo di violenza e solitudine, sfida e umiliazione, ribellione e morte.
La camera da presa esplora le celle, penetra nel sudiciume dei muri, sotto le unghie sporche dei carcerati, si posa sui loro corpi smunti e ripetutamente violati, guarda negli occhi gli agenti penitenziari, si concentra sulle loro mani macchiate di sangue e sempre pronte a colpire. Non ha paura di mostrare la violenza, anche quella più incontrollabile e brutale, e si spinge oltre le ferite, oltre gli ematomi, oltre i volti sfigurati per rintracciare la dignità che tiene in piedi questi uomini, e l’ostinata fedeltà al loro codice morale.
Con uno sguardo memorabile su ogni dettaglio, il film ci guida all’interno del carcere, tanto da sentirne quasi gli odori nauseabondi, respirarne l’atmosfera e ci elegge giudici di ciò che accade. Quale sia il confine tra bene e male e chi siano le vittime e i carnefici, sta allo spettatore deciderlo.
Così come sta allo spettatore decidere o meno di guardare in faccia la morte. Quella che lentamente, troppo lentamente (la sua agonia è durata 66 giorni), divora il corpo di Bobby Sands, scava il suo addome, risucchia le sue forze ma non spegne i suoi occhi. Non solo guardare dalla sua prospettiva, ma anche incrociare il suo sguardo si fa insostenibile. Eppure l’ultima parte del film sfuma ogni suono, zittisce chiunque e, insieme ai medici che lo hanno assistito e ai genitori che sono stati seduti accanto al suo letto, ci costringe a diventare testimoni impotenti. Un gesto estremo, condotto con l’ultima risorsa di cui si dispone per protestare, a torto o a ragione: il corpo.
Il cinema di Steve McQueen non è un cinema facile da sopportare, da digerire, da interpretare. È un cinema che esige molto dai suoi interpreti: piena immedesimazione e al contempo estraniazione totale. Inutile dire che la prova attoriale e fisica di Michael Fassbender è tanto straordinaria quanto ineffabile: sconvolgente, appunto. È un cinema silenzioso e lento, che si può permettere un piano sequenza di 22’ per dare spazio al confronto tra Bobby e un sacerdote cattolico. Un dialogo che diventa una partita a scacchi dove in palio ci sono la vita, la libertà e il sacrificio.
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Mi piace
La regia ricercata, curata in ogni dettaglio ma non per questo leziosa o didascalica. L’interpretazione scioccante di Michael Fassbender. Il potere del film di smuovere, commuovere, disturbare.
Non mi piace
In alcune sequenze il film colpisce troppo duro allo stomaco dello spettatore e rischia di risultare insostenibile.
Consigliato a chi
Non conosce la storia di Bobby Sands ed è appassionato di storia contemporanea. A chi ha amato Shame, apprezza la regia di McQueen e vuole rivedere un’altra straordinaria prova del sodalizio artistico tra il regista e Fassbender. A chi non ha paura di affrontare un cinema fisicamente e psicologicamente disturbante.
Voto
5/5