“Hungry Hearts” (id., 2014) è il quinto lungometraggioo del regista romano Saverio Costanzo.
In un cinema ordinario e di sottocosto valutativo con saldi ad ogni fine anno che si rispetti fino a scavare un barattolo di marmellata oramai asciutto e poco consono a riempire le platee ecco che trovare film di stampo non ‘facile’ e che vorrebbe aprire il letargo di certe piatte scritture sa già di sopraffino sapore ad un piatto recondito ‘cinepanettonismo’-‘zeligamento-tout-court’ per stappare il facile sogno di una immagine sbiadita del nostro cinema sa già di vittoria prima ancora che la proiezione cominci.
Ma nel candore di una cinematografia avara (per chi scrive) pensando a una base di scrittura ben ‘posta’ si arriva a delegittimare la stessa con partenze e arrivi forvianti e fuori da ogni meccanismo connaturato. Capisco simbologie, antefatti, fermo-immagine, laterali, invenzioni e altro ma il cinema (per rimanere) nel tempo ha bisogno di sedimentare notizie e vere invenzioni per non disperdersi completamente cercando di colpire ‘da dentro’ lo spettatore (naturalmente) in una simbiosi non piatta ma che apra spiragli e mescolamenti (vari) nell’animo (quasi quasi assopito, o da quelle parti, per quello che si vede da troppo che non è da ‘grande schermo’).
Nel fare cinema Saverio Costanzo predilige il minimo da dire con pochi colori, le voci disciolte con un vigore interiore alquanto pilotato e una costruzione documentaristica che alza il livello di ripresa ma s’infrange sul destino delle storie non gestite benissimo.
“Hungry Hearts” ha pregi e difetti di un film che vuole fare ‘tendenza’, ‘mercato’ e (soprattutto) ‘commistione’ di generi. Tutto bene se non si volesse fare troppo (e in fretta) con un’ora di film dove (nonostante tutto) succede ben poco e una parte finale (forse qualche personaggio si rende conto che fa parte del cosiddetto cast) dove per forza essere tutto eccessivo (o meglio) se non di più per un piatto condito-mente avaro e semplice.
Per chi desidera aspetti sovrappiù (quasi laconicamente) e poco reattivi o per chi cerca soggiacenze alquanto persuasive per un cinema alquanto mesto di alto desiderio:
cambio di passo tre volte con avvolgimento delle immagini con finali di troppo;
scambio di leggerezza nei due protagonisti e una scrittura rituale e poco coinvolgente;
neonato tra le braccia assopito che non versa una lacrima nonostante i capricci dei grandi;
impulsi metabondi tra scambi veloci e/o dimessi tra i coniugi;
intervento suocera quasi redditizio alla fine della storia ma tardivo e raffazzonato;
metà dilungato e metà archiviabile nel gioco di un ‘indaco’ fuori dallo straordinario;
città in movimento e sottilmente acerba per una scrittura isolata nell’orto in altura di palazzo;
spremitura del gioco con apertura claustrofobica e malodorante ristorante cinese (che non si vede);
strade straniere per un mercato più globale e intenerire il mondo ‘generis’ americanizzante;
rigetto alimentare e stereotipo medico per un film da digerire;
donna in crisi e marito in ansia;
donna in auge maternità e maschio poco infatuante;
suocera d’inciampo e mamma ordinariamente isterica;
subliminale odio per qualsiasi freddo interiore che arriva da un bianco esterno compiacente;
il camino scalda, la nonna seduta, il neonato dorme, arriva la polizia;
non c’è nulla da fare quando un film perde lo smalto senza accorgersene;
Jude è per Mina ma Mina non ne vuole sapere;
ogni parola è un’arma, ogni spinta è uno sparo, ogni lido è un passo di un bambino;
ogni canzone vale un mistero da raccontare e Modugno è esportabile sempre;
commozione da versare in una spiaggia (ultima) mentre i titoli tagliano la voce di ieri;
americano-italiana, un mondo di generazioni sfinite;
un uomo e una donna con una città sconosciuta;
un film degno di un sapore esportato mentre il cibo tutto è da digerire;
un bambino speciale, indaco puro per un racconto spurio;
regia-documento senza segni di grande impatto mentre il buio rimane silenzioso;
si accendono le luci e una ventina di sguardi lasciano ogni sogno di cinema.
Jude e Mina (Adam Driver e Alba Rohrwacher) coppia di contrapposizione per due ruoli in testo(a) forse cari ai fratelli belgi (Dardenne).
Voto: 6-.
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