Arte che parla di altra arte. Così, in sei parole, si potrebbe descrivere I colori della passione, opera all’apparenza sperimentale – ma in realtà accademica, quasi didascalica – dell’artista polacco Lech Majewski, maestro che si è costruito una poetica basata sullo stretto rapporto tra il cinema e le altre arti (basti pensare al semi-autobiografico The Roe’s Room) e che, nel suo tredicesimo film, decide di portare all’estremo la sua esplorazione.
I colori della passione nasce dalla lettura di un libro: Il mulino e la croce di Michael Francis Gibson, la più dettagliata e autorevole analisi attualmente esistente della Salita al Calvario di Bruegel il vecchio. Tavola a olio di oltre due metri quadrati, è il dipinto più grande mai creato dal pittore fiammingo, nonché uno di quelli più ricchi di dettagli: è su questi che si concentra il libro di Gibson, e anche il film di Majewski, un ambizioso tentativo di dare vita e profondità a ogni personaggio e ogni luogo del quadro.
Senza scendere troppo in particolari: la Salita è una reintepretazione in chiave attuale (e politica, secondo Gibson) del percorso della Passione di Cristo. Niente centurioni romani ma soldati spagnoli, che al tempo schiacciavano le Fiandre nella loro morsa. Non Dio che osserva la scena, ma un mugnaio, con tutto il portato simbolico del pane come fonte di vita e corpo di Cristo. Un’allegoria affascinante e complessa da districare, che Majewski racconta dando personalità e una storia a ogni contadino, soldato e pazzo del villaggio che popola il quadro; il tutto raccontato da Bruegel stesso (interpretato da un Rutger Hauer il cui ghigno sarcastico risulta fuori posto), colto nel momento in cui sta preparando il quadro. Il risultato è una continua alternanza tra lunghi momenti pittorici, nei quali ogni dialogo è assente e i movimenti – dei personaggi, della camera – ridotti al minimo, e insostenibili monologhi di Hauer che sembrano sollevati di peso dal saggio di Gibbons e assomigliano più a una lezione di storia dell’arte che alla scena di un film. La composizione del quadro, il vero fil rouge del film, risulta così farraginosa e rischia spesso di sfociare nella noia.
Ma è chiaro che I colori della passione non punta a travolgere lo spettatore con un montaggio frenetico, quanto a (parole di Majewski) «farlo vivere dentro il quadro»; ed è qui che entra in gioco la sperimentazione, perché il film è un potpourri di computer grafica, riprese in esterni, fondali dipinti a mano dal regista e set ricostruiti in interni, amalgamati con l’evidente scopo di rendere l’atmosfera tipicamente fiamminga del quadro di Bruegel: amore per il dettaglio, un uso di colori e luci improntato al naturalismo, una cura maniacale per la composizione del quadro d’insieme. Che in un dipinto a olio funziona, in un film molto meno. Il risultato finale cade a metà tra il capolavoro visivo (quando Majewski lavora di luci e ombre in interno) e la pacchianata (la computer grafica, ahinoi, è men che mediocre).
Il problema di I colori della passione, insomma, non sta tanto nello scopo che si prefigge: La ragazza con l’orecchino di perla aveva compiuto, pur romanzandola, un’operazione simile. Il problema è che tale scopo non viene raggiunto, non come ci si aspetterebbe da un maestro come Majewski. È un esperimento, ma un esperimento mal riuscito.
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Mi piace
È un esperimento interessante. E che visivamente funziona…
Non mi piace
… tranne quando la CGI entra in gioco. E i pochi dialoghi (monologhi, più che altro) che punteggiano il film suonano forzati e fuori posto.
Consigliato a chi
Vuole provare un film “diverso”, anche se non del tutto riuscito.
Voto: 2/5
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