Quando diventa impossibile riassumere la sinossi di un film in poche righe significa che la pellicola in questione poggia su basi ambiziose che difficilmente riuscirà a sviluppare in modo esaustivo.
È questo il caso di I figli della mezzanotte, adattamento del celebre romanzo di Salman Rushdie (vincitore del Booker Prize) ad opera dello stesso scrittore – che ne ha curato la sceneggiatura e in originale presta la voce al narratore della vicenda – e della regista indo-canadese Deepa Mehta, nota al pubblico per la trilogia elementale Fire, Earth, Water (quest’ultimo è stato candidato all’Oscar come Miglior film straniero nel 2007).
La storia segue da vicino la vita di due bambini – nati entrambi la mezzanotte del 15 agosto 1947, mentre l’India proclamava la sua indipendenza dalla Gran Bretagna –, la cui esistenza viene segnata da un’infermiera che, inseguendo il mito dell’uguaglianza e convinta di compiere un atto di giustizia sociale, decide di scambiarli nella culla. Destinando Saleem, figlio illegittimo di una donna povera, a una vita agiata e Shiva, erede di una coppia benestante, alla ricerca costante del riscatto sociale. I loro destini, che continuamente si intrecciano, ribaltando ruoli e prospettive, diventano metafora di quello della loro Terra d’origine.
La vicenda dei figli della mezzanotte è, infatti, solo il pretesto narrativo per raccontare 50 anni di storia e l’avvicendarsi di almeno quattro generazioni, testimoni dell’evoluzione di una terra soggiogata dalla dominazione straniera, finalmente libera, poi nuovamente in guerra con il Pakistan, lacerata dal conflitto civile e costretta a riconoscere l’autonomia del Bangladesh, e infine “tradita” dal Primo Ministro Indira Gandhi che tra il 1975 e il 1977 dichiara lo Stato di emergenza, sospendendo le libertà civili e autorizzando arresti di massa.
Piccolo excursus storico necessario a contestualizzare un film che richiede una conoscenza pregressa dell’India e della sua storia, perché il rischio è quello di venire travolti da una serie di eventi che proiettano protagonisti e spettatori in molte epoche e situazioni diverse, correlate esclusivamente dalla voce narrante (quella di Saleem) e da brevi didascalie che chiariscono luogo e tempo. Dopo un incipit che si prende il tempo di definire personaggi e mettere a fuoco le cultura indiana, tutto assume un ritmo troppo accelerato che non lascia il tempo di capire e assimilare, che mescola realtà e magia, che affascina per la bellezza dei colori e della fotografia ma mai riesce ad appassionare veramente, che restituisce la vitalità di una Terra unica ma ha comunque il sapore di un’occasione mancata.
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Mi piace
La fotografia e la regia a servizio di un Paese di cui riescono a esaltare bellezza e contraddizioni.
Non mi piace
La pretesa di riuscire a trasferire tutte le suggestioni del romanzo: si accenna ad eventi e situazioni senza mai darsi il tempo di approfondirli, impedendo allo spettatore di assimilarli.
Consigliato a chi
A chi è affascinato dalla cultura indiana e già conosce la storia di questo Paese.
Voto
2/5