I figli della notte: la recensione di loland10
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I figli della notte: la recensione di loland10

I figli della notte: la recensione di loland10

“I figli della notte” (2016) è il primo lungometraggio del regista Andrea De Sica.
Un’opera prima succinta, breve, forte, annerita e, sagacemente, accademica.
Il regista, nipote di Vittorio e figlio di Manuel (morto nel dicembre 2014 a cui il film è dedicato con dolcezza) riesce in un modo personale e senza fronzoli a raccontare(si) dei ragazzi con le loro crescite interiori, le ansie e i dubbi. E il luogo sembra austero dove il palazzo-collegio assurge a simbolo di potere che fu e di uno sviluppo dirigenziale d’elite mentre le menti contrastano con la voglia di scoprire il fuori e il notturno che maschera ogni volto.

In un cinema italiano dove si cercano novità vere, nuovi linguaggi e pensieri da sviluppare, è positivo che il regista abbia avuto il coraggio di girare un film dove si mescolano letture scambiali tra autori di vaglia, assuefazioni di famiglia e generi soffusi quasi inetti. La cosa che sgorga agli occhi e al l’udito è la ripresa mai banale, l’asciuttezza nei dialoghi, il campo tra interni ed è esterni, i luoghi distaccati e a se stanti. Tutto in un gioco di solitudine e di vuoto rimandando come contraltare a fiabe di un’infanzia perduta. Qui abbiamo dei ragazzi (che dovranno crescere in fretta) sbattuti nel chiuso di una scuola ‘per bene’

Inizio bianco folgorante, accecante, poi appaiono i lineamenti di un viso a sinistra guardando lo schermo, un ragazzo pensieroso e muto, un silenzio inquietante, un arrivo, un frontale di ghiaccio, immagini oscure e tediose, regole severe, finestre chiuse, lezioni asettiche e voci che rintonano dentro.
Luoghi claustrofobici, martelli da incudine, corridoi lunghissimi, stanze assottigliate, adulti leziosi, balli e cuoricini, buio e luci arrossate, vuoti e donne sul cubo.
Il tempo dei balocchi è finito, le favole hanno fisicità oscure e luci laser, i corpi inglobati nelle notti, gli occhi tetri nelle stanze sconosciute, le forme delle ragazze asettiche e impaurite, le note della canzone ‘ti sento’ (Matia Bazar, 1985) assaggiano lo spazio e assottigliano i corpi delle prostitute, una voluttuosità da ‘sogno’ e un incontro che porterà segni con se.
Giulio, Edoardo, Mathias e gli altri sono soli e amici, sono insieme e non si conoscono, sono viziati a loro modo e vogliono la fuga, sono deboli e sono pieni di invidia. Un finto amore, una conoscenza, una voglia di possedere e una luna dispersa possono portare alla lotta, al sangue e a una corsa come vendetta di un nulla attorno. Il mondo è un bosco da passare e da oltrepassare. La neve diventa orma e fredda avidità di amore impossibile.
Il bianco abbagliante arriva anche sui titoli di coda (con il refrain ‘ti sento’) quasi a chiudere un circolo vizioso di oscurità, incertezze, paure e follie mentali di una crescita di vita ancora da venire.
Luoghi kubrickiani dentro al collegio e bosco innevato (quasi) dei Coen: antipodi ad un realismo virtuoso e ad un sapore lancinante di bella vita inesistente per ‘la classe dirigente del futuro’.

Il film di Andrea De Sica mostra un volto acerbo, legnoso e rissoso negli sguardi dei ragazzi: una ripresa non appesantita, una linearità onesta e una corposità minima ed essenziale. Cast giovanissimo ed efficace; pellicola breve e personale
Voto: 7/10.

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