“I magnifici 7” (“The Magnificent Seven”, 2016) è l’undicesimo lungometraggio del regista di Pittsburgh Antoine Fuqua.
Quando il cinema western non era solo un genere ma icona e immaginario di generazioni intere ecco ritornare sul grande schermo un titolo che è una garanzia. Ma il titolo per un remake è
solo l’inizio, il resto è da vedere…
Antoine Fuqua tenta la carta moderna assemblando un cast variegato e possibilmente piacevoli a tutti: uno (di colore) dello stato di New York, un newyorkese, uno della Virginia, uno del Texas, un sudcoreano, un messicano, un nativo irlandese-alaskano.
Ecco i sette prodi scelti quasi ad hoc per un’empatia con il pubblico: essa non si vede e soprattutto non si sente. Alla lunga (mia impressione) vince il texano tra i sette (non per il coraggio profuso) per la sua dolenzia (postura) in un film dove ci vogliono le ‘palle’ dice la ‘signora’ Emma Cullen (della Florida, l’attrice) che cerca ‘giustizia e vendetta’ per l’uccisione del marito. Ecco assoldare i migliori per far fuori il vero cattivo della storia (un certo Bougue e il suo esercito) e far tornare in vita la città di Rose Creek.
Rifare il verso (remake un bel niente) al film di 56 anni fa è pura gloria da vendere senza prezzo, perché il verso è solo nel titolo (nel nostro paese si divertono a cambiare ‘seven’ con la cifra 7… ): dei magnifici è rimasto il titolo e un (minimo) d’appiglio per manifestare l’ostentazione western.
Il cast paragonato all’originale perde di molte spanne e ciò che vuole essere moderno e tecnologico affonda nel bagno della polvere (iosa-mente al quadrato) che ci ‘dona’ il finale interminabile nelle sparatorie, botti(e) e misure dei corpi. Una didascalia di cambi, quadri e prospettive diventano un’orgia di sapore (quasi) posticcio. E’ il respiro (sapore per meglio dire) di un cinema che non riesce mai ad andare oltre ed elevare il proprio sogno. Solo uno sguardo superficiale.
La dinamite gioca il suo scherzo al nuovo film che cerca di salvare il salvabile ma onestamente la delusione è evidente. In una sala(piccola) con una trentina di persone, alcuni ragazzi hanno aspettato oltre i titoli di testa….forse per aspettare il colpo finalissimo oltre la fine che naturalmente non c’è ( e…meno male). E uno dice al suo amico dice ‘guarda che è finito! cosa volevi vedere?’. Chi sa se loro hanno visto mai il film del 1960 di John Sturges, cioè l’originale, e se si conosce l’originalissima partitura da “I sette samurai” (1954) di Akira Kurosawa; quanto western e non solo deve omaggiare (in grande) il nipponico (oltre misura) ad iniziare da Sergio Leone e suoi ‘dollari’ in titoli…
Poi lo score musicale (discretamente) prende il sopravvento sulle immagini ma non le cavalca come dovrebbe e quando, ai titoli finali, si sente il ‘refrain’ originale (di un certo Elmer Bernstein) allora sì che uno capisce la differenza (e soprattutto esulta per il vecchio score….solo per poco) e lo stile ‘epico’ di ciò che è stato certo cinema.
Quasi magnifici sono solo gli ambienti…che certamente non vengono presi e serviti a dovere. Con un’attesa degli eventi ordinariamente imp(u)losiva. Una storia che non avvince dove manca il gusto sorpresa e un giusto pathos emotivo per dei personaggi che sembrano distaccati dal tutto: in questo sceneggiatura e regia hanno precise ‘difetti’ di partenza nella mancanza di approfondimento dei vari caratteri e di una successione in crescendo (ecco che anche il lungo finale avrebbe potuto giocare meglio le sue carte).
Gli attori politicamente corretti fanno il proprio gioco e del regista ma non vanno oltre all’ordinario spettacolo in una pellicola da guardare per uno spasso di qualità non certo eccelsa.
Denzel Washington (che ha già dalla sua alcune pellicole del regista) è bravo ma non convince completamente: veramente strano per un attore di indubbia qualità recitativa che non ha dalla sua la partecipazione emotiva del plot. Chris Pratt (dopo i dinosauri…) si ritrova in un tutto fuoco con cavalcata
fuori dal parco. Ethan Hawke (Goodnight) ha quella movenza scaduta e uno sguardo stralunato che invita alla comprensione ed essere dalla sua parte (a suo agio nel ruolo); Vincent D’Onofrio (Jack), un corpo difforme che non ha paura di nessuno. Lee Byung-hun, Manuel Garcia-Rulfo e Martin Sensmeier sono un buon messaggio alla causa ma i loro personaggi sono troppo schematici..
Regia moderna ma senza stile (e conta molto in certe situazioni); intrattenimento e puro svago.
Voto: 6–/10 (di stima….’altrimenti…ci arrabbiamo’)