I morti non soffrono, il western femminista di Viggo Mortensen. La recensione dalla Festa del Cinema di Roma
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I morti non soffrono, il western femminista di Viggo Mortensen. La recensione dalla Festa del Cinema di Roma

L'amato interprete di Aragorn, che alla Festa ha ricevuto anche il premio alla carriera, ha presentato nella Capitale il suo secondo film da regista. Al cinema dal 24 ottobre con Movies Inspired

I morti non soffrono, il western femminista di Viggo Mortensen. La recensione dalla Festa del Cinema di Roma

L'amato interprete di Aragorn, che alla Festa ha ricevuto anche il premio alla carriera, ha presentato nella Capitale il suo secondo film da regista. Al cinema dal 24 ottobre con Movies Inspired

I morti non soffrono Viggo Mortensen
PANORAMICA
Regia
Sceneggiatura
Interpretazioni
Fotografia
Montaggio
Colonna sonora

Sulla frontiera occidentale degli Stati Uniti, negli anni ‘60 dell’Ottocento, la franco-canadese Vivienne Le Coudy (Vicky Krieps), fioraia, è una donna molto indipendente, che stringe una relazione con l’immigrato danese Holger Olsen (Viggo Mortensen). Dopo aver incontrato Olsen a San Francisco, accetta di trasferirsi nella di lui casa, vicino alla tranquilla cittadina di Elk Flats, comunità di frontiera del Nevada, per iniziare una vita insieme. Lo scoppio della Guerra Civile li separa, quando Olsen decide di combattere per l’Unione. 

Lascia così Vivienne a cavarsela da sola, in un luogo controllato dal corrotto sindaco Rudolph Schiller (Danny Huston) e dal suo spregiudicato socio in affari, il potente ranchero Alfred Jeffries (Garrett Dillahunt). Il figlio violento, sgarbato e sbandato di Alfred, Weston (Solly McLeod), perseguita in modo aggressivo Vivienne, determinata a resistere alle sue indesiderate avances. Quando Olsen torna dalla guerra, lui e Vivienne sono costretti a fare i conti con la persona che ciascuno di loro è diventata. 

All’età di 65 anni, Viggo Mortensen si cimenta nuovamente con una regia, tornando dietro la macchina da presa dopo l’esordio di Falling – Storia di un padre, del 2020. Stavolta l’amato interprete di Aragorn nella trilogia del Signore degli Anelli per il suo I morti non soffrono è partito da un’immagine della madre Grace Gambel Atkinson Wright, che aveva ispirato anche il precedente film, e dai libri di illustrati degli anni ’30 che lei stessa, cresciuta vicino a boschi d’acero nel nord-est degli Stati Uniti, vicino al confine canadese, gli leggeva da bambina, in cui trovavano posto storie di cavalieri e avventure medievali (anche nel film succede qualcosa del genere, scomodando però Giovanna d’Arco). 

Il film è un assorto e cadenzato western (genere che l’attore ha frequentato in passato ben volentieri come attore, da Oceano di fuoco – Hidalgo a Appaloosa: si sente) che dice molto della sensibilità sfaccettata e sfumata del Mortensen artista a tutto tondo e che ha dentro tutto il suo eclettismo di pittore, fotografo, poeta e musicista (ne firma lui stesso la colonna sonora). Al centro della storia ci sono due spiriti liberi, entrambi di origini straniere e non privi di una certa ruvidezza e tendenza all’indipendenza, che li porta a scrutarsi in profondità, a riconoscersi e infine a innamorarsi, tra dolcezza sussurrata e fisicità erotica accennata ma inalienabile. 

Più che il mito della frontiera in senso stretto, che anzi rovescia, a Mortensen, danese per parte di padre e americano dal versante materno, sembra interessare soprattutto la violenza silenziosa, impalpabile e strisciante con cui i conflitti alla base da sempre della società americana costringono i protagonisti a ridiscutere col tempo la propria idea di unione e famiglia. Il cowboy protagonista è, come il regista, un uomo industrioso e dai mille talenti, carpentiere ma anche scrittore, e unisce una tendenza al pragmatismo a una certa ruvida malinconia che fanno una maschera perfetta per le smorfie vitree e magnetiche del suo interprete. 

Fin dai primi minuti The Dead Don’t Hurt, come recita il titolo originale, nell’approccio al genere poggia su un classicismo quieto e solo in parte revisionista, con un’abbondanza di primi piani, soprattutto nelle primissime sequenze, e un’inesorabile vocazione femminista nel far sì che il personaggio dell’attrice lussemburghese Vicky Krieps, ammirata nella sua sensazionale prova ne Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson, guadagni progressivamente il cuore della scena e del racconto.

Si tratta di un film forse senza picchi di messa in scena, piuttosto fragile nell’alternanza macchinosa tra passato e presente, ma dalla singolare patina formale, che ha un’idea precisa di romanticismo anche abbastanza schietta, anti-retorica e non di rado filosofica: un dato che gli consente di sguisciare via rispetto al sentimentalismo, e di trovare una sua personale via alla rappresentazione dell’amore e della maniera improbabile in cui può sorgere e sgorgare anche in mezzo ai territori più ispidi e inospitali possibili, sia dal punto di vista paesaggistico che da quello simbolico (il film ha anche isolati momenti più pittorici e autoriali, che rimandano con la mente alla ragguardevole collaborazione tra Mortensen con l’originalissimo e radicale regista argentino Lisandro Alonso in Jauja e nel più recente Eureka). 

A declinare il western in chiave femminista ci aveva già pensato proprio di questi tempi il progetto Horizon di Kevin Costner, ma I morti non soffrono da questo punto di vista si spinge a conti fatti molto oltre e arriva a configurare una resa dell’identità maschile e patriarcale a vantaggio di un femminile maggiormente volitivo: un anima dunque, e non un animus, capace di farsi carico del peso che non può non ritrovarsi a portare chi deve, nonostante tutto, mandare avanti propria la vita, imparare a sopportare l’assenza. A restare, in buona sostanza, mentre la guerra si consuma altrove, e a disinnescare le insidie di un mondo corrotto e putrescente. 

Foto: Talipot Studio, Recorded Picture Company, Perceval Pictures

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