L’ambizione è alla base di ogni progetto. Privato e professionale. Con I Vichinghi, il regista Claudio Fäh (L’uomo senza ombra 2) voleva raccontare una storia epica, da cui trasparissero il coraggio, l’onore, e l’amore per l’arte della guerra dei guerrieri del Nord. Il banco da cui attingere era vasto, tanto più che l’intrattenimento cinematografico e televisivo in questi anni ha incontrato una nuova “mania vichinga”, tra il successo di Dragon Trainer, la serie tv Vikings e – ovviamente – la Marvel, che con Thor racconta l’aspetto più mitico (e divino) della cultura norrena.
Non sempre, però, l’ambizione è proporzionale ai mezzi a disposizione. E così, I Vichinghi assume presto i contorni di una parodia di genere, con personaggi deboli e situazioni improbabili in successione. L’inizio è anche promettente: una filastrocca vichinga in voice over accompagna la nave dei protagonisti (esiliati dal loro paese d’origine perché ribelli al Sovrano) in balia di una terribile tempesta, che spinge i nostri sulle coste scozzesi. Stranieri in terra straniera, sono accolti e attaccati da un gruppo di soldati, che seppur in superiorità numerica, vengono messi in fuga. Gli sconfitti altri non sono che la guardia reale impegnata a scortare la figlia di Re Dunchaid, Inghean, in procinto di diventare la sposa di un alleato del padre (il classico matrimonio di convenienza). Nella fretta di salvare la pelle, la ragazza viene lasciata alla mercé dei vichinghi, che decidono di rapirla per chiederne il riscatto con cui pagarsi l’ingresso alla roccaforte vichinga di Danelage, l’unica nei paraggi. Inutile dire che il Re non resterà a guardare, inviando sulle tracce dei rapitori i suoi mercenari più crudeli, i Lupi, guidati dai fratelli Bovarr e Hjord.
Finito il primo atto, il film si perde in una serie di trovate senza logica che hanno del comico: si va dal monaco/guerriero cristiano – sbucato dal nulla – che sembra uscito dritto dritto da Assassin’s Creed, al rapporto tra il giovane leader dei vichinghi, Albjorn (Tom Hopper, visto in Black Sails), e Inghean (che ha pure misteriose doti da sensitiva), compatibili come il diavolo e l’acqua santa. Ogni guerriero vichingo vorrebbe avere una caratterizzazione ben precisa – abbiamo il futuro re, l’anziano d’esperienza (che ringhia come una cane – letteralmente – ai nemici), il giovane superstizioso (che assomiglia a Jon Snow), l’attaccabrighe, l’arciere e un soggetto inutile non ben identificato -, ma nessuno riesce a uscire dall’anonimato. Le scene di guerra avrebbero potuto essere il fiore all’occhiello della produzione (data anche la bellezza delle location sudafricane), e invece sono mal coreografate, meccaniche e prevedibili nello sviluppo.
Nemmeno gli effetti speciali aiutano (molto dozzinali, anche nell’uso del digitale), e così si arriva all’epilogo tra incredulità e risate, con i colpi di scena ridotti al ritorno miracoloso di personaggi teoricamente eliminati un attimo prima. Un po’ poco per scrivere la prima pagina di quella che doveva essere una nuova saga vichinga al cinema. Meglio, allora, tornare allo scontro tra vichinghi e alieni di Outlander: almeno il twist sci-fi del film con Jim Caviezel dava un po’ di brio.
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Mi piace:
Il Sudafrica (mascherato con kilt scozzese) offre location mozzafiato, purtroppo mal sfruttate. E il monaco guerriero, il più abile combattente fra tutti.
Non mi piace:
Scene di guerra mal girate, effetti speciali poveri, protagonisti senza spessore. Serve altro?
Consigliato a chi:
Ha una passione viscerale per i guerrieri del Nord e la loro tradizione, tra divinità e Valhalla.
Voto: 1/5
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