Provvidenza è vuota: l’ha svuotata un terremoto. Non ci sono più i bambini della scuola, crollata sopra Maria e i suoi alunni. Non ci sono più i ragazzi, che ancora tornano la notte, in motorino, per portare via un pezzo di quel passato. Non c’è più il sindaco, che vuole murarla, tagliarla fuori dal mondo in modo definitivo. Non ci sono più i vigili, quelli che hanno perso un figlio, quelli che vogliono dimenticare e ricominciare altrove.
Provvidenza è piena: è piena di macerie, piena di vicoli, piena di muri, di cucine, di camere da letto, di campi da coltivare, di televisori spenti, di occhiali scheggiati, di quadri ancora alle pareti, di giocattoli scassati, di recinti chiusi col fil di ferro, di erba, di finestre, di rumori che non capisci se ci sono davvero o te li sei solo sognati.
È piena e c’è Elia (Sergio Rubini) che la veglia, solo lui, ora che anche il pastore Bartolo, proprio ieri, è finito sotto un crollo. Elia che non riesce a lasciare andare il ricordo di sua moglie Maria, non riesce a lasciare andare un mattone, un vicolo, un refolo di vento, un giardino pieno di rovi, perché gli pare che lasciati andare quelli, sparito anche lui, di quel pieno che era, non resterebbe più niente.
Il bene mio è questo, non aspetta una lettura, assomiglia più alla tela di un dipinto che si increspa, come quello della città prima del terremoto che ogni giorno Elia tira su per nessuno, nella piazza centrale. È la resistenza dell’uomo al tempo e alla natura, una specie di utopia estrema che riconosce nella memoria la medicina a ogni degrado, una forma di educazione. È la messa in atto del principio artigiano: aggiustare quello che è rotto, vivere del necessario.
Per dire il senso di questa resistenza Pippo Mezzapesa evita la scorciatoia del film di fantasmi, cioè del piccolo espediente di genere, e fa invece l’opposto, racconta una resurrezione che non richiede il soprannaturale, che sarebbe alla portata di chiunque.
Ha molto della fiaba Il bene mio, ha molto dell’apologo morale, ma ha un regista e un protagonista (Rubini è fantastico) che lo salvano più di una volta dalla posizione retorica che rischia. Perché non è mai interessato all’epica della grandezza, neppure a quella classicheggiante delle rovine della Storia. Tutto il contrario. Dice che dopo il dolore, dopo un disastro, già la scelta del proprio posto nel mondo, del luogo che si abita, delle cose che si guardano, si pensano, si salvano, è politica, è vita, persino poesia.
E la cosa più bella è che – con esatta simmetria -, l’occhio del personaggio e quello del regista, i loro gesti e i loro mestieri, qui compiono lo stesso salvataggio.
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