Nord Africa, Repubblica (immaginaria) di Wadiya. Il generale Hafez Aladeen (Sasha Baron Cohen) la tiene in pugno utilizzando da cima a fondo il kit del perfetto dittatore: tortura degli oppositori, discriminazioni sessiste, antisemitismo, minacce all’Occidente, un arsenale nucleare in espansione. È talmente odiato che per tirare a campare deve usare una squadra di sosia, puntualmente giustiziati via attentato. Quel che non sa, è che il suo primo nemico è lo zio Tamir (Ben Kingsley), stufo delle “innocue” manie di potere del nipote e convinto che per far soldi sul serio bisogna riciclarsi come democrazia ed entrare in affari con i cinesi. Usando un sosia particolarmente deficiente, Tamir sostituisce Aladeen e lo abbandona a Manhattan, dove viene preso in simpatia dalla sua nemesi: una trentenne femminista-democratica-ecologista (Anna Faris).
Dopo Borat e Bruno, Sasha Baron Cohen abbandona definitivamente la strada del mockumentary, e per la sua satira politica prende direttamente a esempio il più grande di sempre, limitandosi a togliere dal titolo del film di Chaplin l’aggettivo (“Grande”). Assuefatti come siamo alle farse politicamente scorrette made in USA, da Zohan alle Notti da Leoni, è difficile dire se sia ancora eversivo questo tipo di umorismo. Eppure la precisione con la quale Il Dittatore tocca i punti sensibili della propaganda cui TV e giornali ci sottopongono quotidianamente, ci fa propendere per il sì: si riconosce una sfacciataggine pura e ben indirizzata, che per associazione porta subito al cartoon South Park. Si fa fatica a separare la risata dallo shock culturale, dove invece – per fare un confronto – le citate Notti da Leoni non inducono né l’uno né l’altro. Non si scherza (solo) sulle pratiche corporee – ché il sesso o le feci sono i più ovvi tra i falsi tabù – si scherza sull’11 settembre, sul fondamentalismo religioso, sui paradossi del pensiero progressista e democratico, sui riti funebri.
Dove il film tira un po’ la corda è sul monologo finale, quello che spiattella la morale, e che – per scarsa opportunità e pericolosa associazione con il citato, inarrivabile modello chapliniano – sembra rompere il patto di fiducia con lo spettatore: non sono sicuro che tu abbia capito quel che intendo, quindi te lo riassumo. Non è comunque un peccato grave: la satira de Il Dittatore è al passo con i tempi; punta il bersaglio e per colpirlo non si fa nessuno degli scrupoli che ci si aspetterebbe.
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Mi piace
La satira colpisce dove deve colpire, facendosi pochi scrupoli
Non mi piace
In un film così sfacciatamente antiretorico, il monologo finale una punta di retorica la manifesta
Consigliato a chi
A chi ama l’umorismo politicamente scorretto
Voto: 4/5
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