Terzo remake cinematografico dell’opera di Francis Scott Fitzgerald, dopo quello del ’49 e quello del ’74 con Robert Redford e Mia Farrow e la sceneggiatura di Coppola, questa versione de “Il grande Gatsby” diretta da Buz Luhrmann rilegge con ritmo, atmosfera e stile fiammeggiante quel capolavoro sulla caduta di valori nella società Usa prima della crisi del ’29, e sulla perdita di identità di un uomo a causa di un amore impossibile e di mal interpretate aspettative.
In sintonia con i tempi attuali il film (come il romanzo) rende ancora valida oggi la metafora del disfacimento sociale e morale di un mondo destinato inevitabilmente alla crisi.
A mio giudizio l’ultima fatica di Luhrmann conquista sicuramente gli occhi e le orecchie dello spettatore, ma non purtroppo il suo cuore, coinvolgendolo quindi solo parzialmente. Ed è un peccato perché la passione di attori, tecnici e regista si vede tutta; ammirevole è l’aspetto visivo-sonoro, godibile e piacevole la narrazione, affascinante la ricchezza di temi, bravi tutti gli attori; però qualcosa non funziona, non convince. A cominciare dai dialoghi finti, dallo spettacolo troppo frastornante ed effimero, dalla voglia di rendere tutto esplicitato e spiegato, togliendo così mistero e fascino alle vicende e ai personaggi. Tutto è marcato e troppo ostentato, dalla recitazione allo sfarzo lussuoso delle belle scenografie, dai sgargianti e curati costumi all’accesa e policromatica fotografia, dai gratuiti effetti speciali visivi al 3D piuttosto inutile.
Un invadenza stilistica che ha soffocato la forza espressiva del romanzo, e che a differenza dei film precedenti del regista mal si è sposata stavolta con la materia trattata.
Persino il mix di musiche Jazz e Hip hop, seppur in sé interessante, non sembra riesca a vivificare la tragedia che descrive. Forse, se si rendeva più equilibrata l’estetica (troppo sovreccitata) con il “contenuto” (troppo inconsistente), l’opera poteva risultare più riuscita e soprattutto più emozionante. La pellicola sembra assomigliare in fondo al suo protagonista e alle sue feste sfarzose e orgiastiche: tanto lusso e poca verità. Restituisce con efficacia la frenesia e la vacua avidità di una società corrotta e di un’epoca ubriaca di potere, soldi e piaceri sfrenati; ma resta incapace di toccare ogni necessaria profondità. Al pari del suo protagonista, anche il regista si perde nel suo sogno…
Nella fragile sceneggiatura, scritta dal regista con Craig Percie, si possono però ancora ritrovare i molti temi del libro: la solitudine, l’illusione dell’amore, il tempo giovanile e passato che non ritornano, l’ipocrisia della società, il ritratto tragico di un uomo che fa tutto e possiede tutto solo per conquistare, illusoriamente, l’amore di una donna. E proprio quest’ultimo è in fondo l’aspetto che, al di là dei pregi e difetti del film, più rapisce: l’immensa figura di Gatsby. Il Gatsby malinconico, orgoglioso, bugiardo, contrabbandiere, speranzoso, fatalmente attratto e rovinato da un sogno che è già alle sue spalle, senza che se ne renda conto. Di Gatsby colpisce la sua ambizione, idealistica e impossibile; il suo romanticismo, tenero ma irrealizzabile. E’ l’ingenuo sfruttatore di una società corrotta, e al tempo stesso anche la sua innocente vittima. Vittima di un sogno individuale (diventare diverso per amore di Daisy) che non potrà mai afferrare, ma anche di quello collettivo (il Sogno Americano nell’ottica sfrenata e avida) destinato di lì a poco a finire… Ancora una volta è il suo grandioso ritratto a farci provare comprensione e pietà per lui, malgrado tutto. Il suo è il volto delle illusioni, e nei suoi occhi ci rispecchiamo anche noi…