Costruire in un fienile un missile per arrivare sulla Luna sembra un roba da matti. E nel piccolo bar del Polesine, Dario (Giuseppe Battiston) è considerato, più che lo scemo, il velleitario del villaggio. Un Ufo antropologico. Un giorno fa irruzione alla sua vita, in virtù di una serie di vicissitudini, il fratello che vive a Roma e che ha visto una sola volta, Mario (Stefano Fresi), figlio dello stesso padre ma di una madre differente. E le conseguenze, soprattutto sul piano umano, saranno imprevedibili.
Di film italiani come Il grande passo, presentato in concorso allo scorso Torino Film Festival (dove Fresi e Battiston hanno vinto ex aequo il premio come migliori attori), se ne vorrebbero vedere più spesso. Perché, al netto di tutti i difetti e le imprecisioni di scrittura che gli si possono imputare, dei cali di tono e delle imperfezioni, ha un cuore grande e generosissimo e una coefficiente di piacevolezza che gli deriva dalla sincerità toccante e commovente delle sue idee, evidenti fin dal prologo a carattere lunare: una sequenza curata sotto il profilo visivo, sonoro e formale come fossimo davanti a un blockbuster di fantascienza americano più che a una tenue commedia di casa nostra, affettuosa e un po’ stramba nelle sue coloriture sci-fi (come già Tito e gli alieni, visto qualche anno fa sempre a Torino).
E una menzione obbligata merita soprattutto, fin da subito, lo spunto di far interpretare finalmente a due attori come Stefano Fresi e Giuseppe Battiston il ruolo dei fratellastri, il primo pacioso e mammone il secondo decisamente spigoloso. Visto che in passato si è più volte ironizzato sulla cosa, anche da parte dei diretti interessati, pronti a scherzare sugli innumerevoli casi in cui sono stati scambiati pubblicamente. I due sono totalmente al servizio dell’incontro scontro tra due consanguinei identici nel fisico e diversissimi nell’animo, che hanno reagito in maniera diametralmente opposta al vuoto lasciato da un genitore assente e disattento.
L’accostamento coatto cui la vita li costringe genera una miriade di situazioni buffe e agrodolci, in cui i rispettivi caratteri si fanno entrambi portatori di due visioni del mondo fortemente radicate dal punto di vista geografico e sociale. La romanità del personaggio di Fresi è infatti accogliente e rassicurante, tra panini con la cotoletta artigianalmente preparatigli dalla madre, coppette all’amarena consumate in quantità industriale e sorrisi estremamente bonari anche quando forzati e tirati via. Quello di Battiston, invece, è un grumo di isolamento e durezza, di sogni troppo grandi e probabilmente mal riposti, che ne hanno indurito il temperamento fino a renderlo intrattabile come un orso prigioniero del suo letargo esistenziale sprofondato nella provincia nordica.
Seguendo questo doppio tracciato il secondo film da regista di Antonio Padovan, già dietro la macchina da presa per Finché c’è prosecco c’è speranza, scorre placidamente, con grazia soffusa e confortevole, con un tepore umanista (e diciamo pure casereccio) che sa come farsi perdonare i propri limiti, sciogliendo le baruffe e le divergenze tra Dario e Mario (interessante, tra l’altro, che a separarli ci sia una sola lettera) in una commozione esile finché si vuole, ma in compenso mai stonata e sopra le righe. Il merito è anche di un’ambientazione e di alcune scelte di contorno molto curate, che nei paesaggi e nella tipologia di caratteristi adottati, da Roberto Citran a Teco Celio, non possono davvero non ricordare il cinema del compianto Carlo Mazzacurati.
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