Il grande salto, la recensione
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Il grande salto, la recensione

Giorgio Tirabassi e Ricky Memphis sono i protagonisti di una parabola comica e umana che guarda agli ultimi e alla Roma più dimenticata, tra amarezza e ironia

Il grande salto, la recensione

Giorgio Tirabassi e Ricky Memphis sono i protagonisti di una parabola comica e umana che guarda agli ultimi e alla Roma più dimenticata, tra amarezza e ironia

Il grande salto
PANORAMICA
Regia (3.5)
Interpretazioni (4)
Sceneggiatura (3.5)
Fotografia (3)
Montaggio (3)
Colonna sonora (3.5)

I quarantenni Rufetto e Nello (Giorgio Tirabassi e Ricky Memphis) sono due rapinatori maldestri che, dopo aver scontato quattro anni di carcere per un colpo andato male, vivono in un quartiere della periferia romana. I due non demordono e progettano una rapina che potrebbe dare una svolta alle loro vite mediocri. Riprendere in mano l’attività e soprattutto portarla a buon fine, però, non è per niente facile…

Il grande salto, esordio alla regia di Giorgio Tirabassi, non è solo la variante della commedia all’italiana più attuale che si possa trovare al cinema di questi tempi, ma anche una declinazione amara e intelligente di quel modello tanto spremuto e a da sempre a dir poco ingombrante. L’attore sceglie di avere al suo fianco, per un progetto estremamente sentito, l’amico Ricky Memphis, col quale aveva già condiviso il set di Distretto di polizia e Il branco di Marco Risi: la loro chimica è  palpabile e impagabile, così come la capacità di entrambi di recitare facendo parlare il volto e il corpo più di mille parole, con un ammirevole impeto di sottrazione.

La quotidianità dei due protagonisti, segnata dalla spada di Damocle di un Fato che fa capolino in dei documentari sui Maya che Nello guarda compulsivamente nel loculo fatiscente in cui vive, si presta a un’esplorazione della Roma più dimenticata e lontana da ogni riconoscibilità. Si superano le semplificazioni sociologiche e la risata stiracchiata della nostra commedia industriale e di sistema per delineare un attaccamento alla vita disperato eppure resistente, che non teme la stanchezza e la spossatezza, la crisi e lo spettro del fiasco.

In tal senso gioca un ruolo cruciale l’ironia irresistibile e tipicamente romanesca della sceneggiatura, che cela puntualmente un disagio più grande, una disillusione tangibile e senza redenzione. Sono palesemente insoddisfatti, Rufello e Nello, eppure il loro ammaccato e appassito umorismo impedisce loro di soccombere, sebben il primo non possa permettersi una casa ed è in difetto tanto con la compagna quanto col suocero (Gianfelice Imparato), mentre il secondo si barcamena tra appuntamenti fallimentari su siti d’incontri e ragazze con le quali l’incomunicabilità regna sovrana. I due sognano la fuga, oltre alla proverbiale svorta”: che siano le Marche o Rieti non importa, perché forse l’unica cosa che conta è scappare dalle sabbie mobili di una Roma mai così matrigna e irrespirabile.

Il campionario di sventure incrocia così la ballata triste e malinconica e la lezione di Risi e Monicelli forma un quadrilatero ideale con il lasciato dei più importanti maestri post-pasoliniani, da Sergio Citti a Claudio Caligari, avvezzi come pochi altri a caricare di rimpianto il litorale della Capitale. Di Non essere cattivo non a caso viene riproposta un’attrice, la bravissima Roberta Mattei, nei panni della moglie di Tirabassi, ma anche l’approccio esistenziale al mare, che nel film con Borghi e Marinelli non andava guardato per non “farsi venire i pensieri”, qui si riduce a un sorso fugace, tanto brutale quanto effimero, da bere e assaporare tutto d’un fiato per evitare che si confonda nella grande e inestricabile tela del destino.

Un arazzo così enorme e terribile che è impossibile, quando vi si è sprofondati fino al collo, ipotizzarne i contorni, orientarsi al suo interno, dominarlo. Tale fatalismo si traduce, intorno ai due terzi della narrazione, con un colpo di coda soprannaturale dai tratti “miracolosi” che fa fare al film un definitivo grande salto di qualità, spingendolo verso esiti e conclusioni ancora più insoliti e sorprendenti del previsto.

In tale stranezza liberatoria e rigenerante, che sa di boccata d’aria fresca per il nostro cinema popolare, rientrano anche le piccole apparizioni di Valerio Mastandrea e Marco Giallini (il primo dei due è un esilarante impiegato delle Poste): due attori di primo piano che qui accettano, con sapienza e generosità, di farsi sornionamente e amabilmente da parte, per lasciare la ribalta a due colleghi forse meno acclamati ma altrettanto meritevoli.

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